LA SPERANZA DI UN OTRE
 

Disperata cognizione dell’essere

presuntuosamente atomo casuale

dell’esistenza passata presente e futura

 

antropocentricamente omphalos esilarante

del nulla ed esilarato dal nulla

chissà se eterno insieme all’infinito

 

malinconicamente innamorato

di uno sguardo di nuvola che fugge

sul farsi dolce della giovinezza

nell’immediato tramonto graduato al cremisi

subito intirizzito dalla calura immensa

del deserto di un mare reso atrofico

per la lotta con l’aria che deprime

e preme su ogni centimetro quadrato

 

orrendamente stupefatto e rassegnato

dal sorriso che inganna e attrae

di una monnalisa vissuta qualche secolo fa

e dagli atroci sezionamenti di un mengele

fra fumi e zyklon B ben catalogati e classificati

sulle note di una cavalcata di walkirie

fra abominevoli ondate di V2

ormai elettroniche e dronate

come tracce di sequenze di CD

per riprodurre flauti magici

 

altre indicibili sevizie

che la coscienza rifiuta e aborre

sovrastano la facoltà del verbo

a rendicontare e a rendere reali.

Lo sguardo sorpreso di un bimbo

offeso da una risata di scherno

la lealtà di un gesto derisa

dall’indifferenza supponente

 

eppure una nitidezza di color

mi ammalia e mi fa sdilinquire

sulla marina resa piatta dalla tramontana

e l’orizzonte segnato da nubi orlate di luce

e soffuse trasparenze di ghiaccioli sfrangiati

nell’accensione del vespero asciutto

sulla linea che il sole ha da poco oltrepassato

per rumoreggiare ombre azzurrine

in cui si smarriscono le angosce

degli stormi che atterrano per l’ultima volta

e per l’ultimo giorno e le ultime speranze

sottratte alle illusorie albe

ciclicamente e sadicamente riproposte.

 

non riesco a trovare pace

perché, come Pasolini, so ma non ho le prove

e soprattutto perche sono impotente

a interrompere la catena infame

che lega un fanciullo monco per luce chimica

da millenni pressata

a una vergine cuccia vendicata

per una pedata impertinente

con l’immenso inno del ghibellin poeta

e il delirio omicida del cantore di Riccardo III

mentre mi ritrovo nella poesia sentimentale

del poeta infinito umiliato mentre è osannato

e i migranti se ne vagano

come otri gonfi di speranze e di fame e d’acque

in pasto ai pesci nel blu più intimo

per foraggiare caveau di banche

ben protette dalla beffa organizzata

e fumosa di un locale sulla Costa azzurra.

 

sapientemente edotto sull’infinito

e sul molteplice caoticamente ordinato

per un’infinita ermeneutica del finito

a fronte del calore di un forno

in cui si profuma e si fonde

una pizza da gustare a portafoglio

con l’olio bollente che cola sulle dita.

 

 

Ferdinando Dello Iacono

 

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