( IL SOGNO DI NANNI)
[…]I cenci svolazzavano allegramente, e le fave ballavano anch'esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette: - Nedda! Nedda la varannisa! - sclamarono parecchie. - Dove s'é cacciata la varannisa?
- Son qua- rispose una voce breve dall'angolo più buio, dove s'era accoccolata una ragazza su di un fascio di legna.
- O che fai tu costà?
- Nulla.
- Perché non hai ballato?
- Perché son stanca.
- Cantaci una delle tue belle canzonette.
- No, non voglio cantare.
- Che hai?
- Nulla.
- Ha la mamma che sta per morire, - rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti.
La ragazza, che teneva il mento sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri, scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir bocca, sui suoi piedi nudi.
Allora due o tre si volsero verso di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero: - O allora perché hai lasciato tua madre?
- Per trovar del lavoro.
- Di dove sei?
- Di Viagrande, ma sto a Ravanusa -.
Una delle spiritose, la figlioccia del castaldo,che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a Pasqua, e aveva una bella crocetta d'oro al collo,le disse volgendole le spalle: - Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio l'uccello -.
Nedda le lanciò dietro un'occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava agli zoccoli che minacciavano la sua coda.
- No! lo zio Giovanni sarebbe venuto a chiamarmi! - esclamò come rispondendo a se stessa.
- Chi è lo zio Giovanni?- È lo zio Giovanni di Ravanusa; lo chiamano tutti così.- Bisognava farsi imprestare qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, - disse un'altra.- Lo zio Giovanni non è ricco, e gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni giorno? Ah! si fa presto a dire! - aggiunse Nedda scrollando la testa, e lasciando trapelare per la prima volta un'intonazione più dolente nella voce rude e quasi selvaggia: - ma a veder tramontare il sole dall'uscio, pensando che non c'è pane nell'armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l'indomani, la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel lettuccio! -E scuoteva sempre il capo dopo aver taciuto, senza guardar nessuno, con occhi aridi, asciutti, che tradivano tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non saprebbero esprimere.- Le vostre scodelle, ragazze! - gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale. Tutte si affollarono attorno al focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio. Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l'illuminò tutta.[…]
APPROFONDIMENTI
“…Tre giorni dopo udì un gran cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli, pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto sporco di sangue. Lungo la via dolo-rosa, prima di giungere al suo casolare, egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri, era caduto da un'alta cima, e s'era concio in quel modo. - Il cuore te lo diceva: - mormorava con un triste sorriso. Ella l'ascoltava coi suoi grand' occhi spalancati, pallida come lui e tenendolo per mano. Il domani egli morì. Allora Nedda, sentendo muoversi dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava co-me un triste ricordo, volle correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il prete che sapeva la sua vergogna, si na-scose il viso nella mantellina e tornò indietro derelitta.
Adesso, quando cercava del lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella sua casupola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l'un dopo l'altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta. Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva pianto la sera in cui aveva chiuso l'uscio del casolare dietro al cataletto che se ne andava, e s'era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero alla Ruota.
- Povera bambina! Che incominci a soffrire almeno il più tardi che sia possibile! – disse. Le comari la chiamavano sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla povera bambina mancava il latte, giacché alla madre scarseggiavail pane. Ella deperì rapidamente, e invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il sangue del suo seno. Una sera d'inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava sul tetto, e il vento scuoteva l'uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli ardenti della madre, diede un guizzo, e non si mosse più. Nedda la scosse, se la strinse al seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll'alito e coi baci, e quando s'accorse che era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua madre, e le s'inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di misura.
- Oh! benedette voi che siete morte! - esclamò. - Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me! – “ (1)
(G.Verga: da Vita dei Campi)
PROLOGO
Il sole riscaldava
come se fosse giugno,
solo morte e miseria
stringeva nel suo pugno.
L’amore del suo Janu
era l’unica certezza,
per una volta sola
desiderò l’ebbrezza.
Le cime dei castagni,
le mosse, adagio, il vento,
nei grandi occhi neri
ondate di sgomento.
L’estate ancor durava
sull’erba che ingialliva,
un misero sorriso
sul lavoro che finiva.
Dopo ci fu silenzio
nel caldo del meriggio,
sognare e non morire
fu atto di coraggio.
L’ardore dell’amore
sentì nelle sue vene,
e tutto fu delirio
lanciato sulle pene.
EPILOGO
Un gallo non lontano
cantò forte il suo verso,
scapparono lontano,
ma nulla fu diverso.
Una morale sterile
lo giudicò peccato:
il frutto del suo ventre
fu presto condannato.
Perse, alla fine, il sogno,
la vita la sconfisse,
rimase sola al mondo:
dolor la crocifisse. (2)
[ Da “Un unico grande sogno” di F.Pastore]
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(1) Nel 1880 esce la raccolta di novelle "Vita dei campi“ e, l'anno successivo, il primo romanzo
del ciclo dei vinti ed il suo capolavoro: "I Malavoglia"-
(2) Libera riduzione in versi della celebre novella del Verga.
NOTE:
a) Giovanni Carmelo Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840, al nume-ro 8 di via Sant'Anna, da Giovanni Battista Verga Catalano e Caterina Di Mauro Barbagallo originaria di Belpasso.
Discendente del ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca ed apparte-nente alla nobiltà antica di Vizzini,era il secondo condo di sei figli. Lasciati gli studi di legge per entrare, nel 1861, nella Guardia Nazionale, manifesta fin da giovane, un grande interesse per la letteratura, pubblicando,a soli 22anni, "I carbonari della montagna", un romanzo storico dove è già visibile l’entusiasmo patriotico per l‘ annessione della Sicilia al Regno d'Italia, ardore che diventa ancora più evidente nel secondo romanzo, "Sulle lagune"(1863) e con la fondazione del giornale "Roma degli Italiani". Nel 65, si trasferisce a Firenze,ove pubblica :“ Una peccatrice" (66) e "Storia di una capinera" (71).
b) Figura di Nedda:adattamento di Paolo Liguori
Franco
Pastore