ANCHE SE NON CI CREDI
Se ne andò così, come era vissuto, con discrezione, cercando di non dare alcun fastidio. Lo inumammo nel piccolo cimitero del paese ed il nome, Sandro Lanzetta, si leggeva appena, sulla piccola croce del tumulo.Fu mia moglie Maria, la primogenita di cinque figli, a dire: - Meriterebbe una lapide, povero padre mio!-
Eravamo nel 1961 ed era già tanto far tacere la fame! Per questo motivo, i miei cognati, ed altri di famiglia si guardarono bene dal farsi coinvolgere nella spesa della tomba. A questo punto, col coraggio della disperazione, assunsi, temerariamente, l’onere dell’impresa e mi impegnai col marmista, a corrispondergli, la somma di trentamila lire, per la messa in opera del marmo, con foto, nome e cognome in neretto, grandi tanto quanto occorreva per una comoda lettura, da almeno cinque metri dal santo luogo. Fu così che, il due novembre di quell’anno, mia moglie, portando i fiori al cimitero, ebbe la soddisfazione di piangere e pregare davanti ad una vera tomba, che distingueva il caro defunto, nel gran numero di poveri tumuli disadorni.
Il giorno successivo alla festa dei morti, verso le due del mattino, sognai mio suocero, più alto e magro di quanto ricordavo fosse da vivo, il quale, poggiandomi la mano sulla spalla, disse che tre erano i miei numeri fortunati: sei, quattro ed otto.
- Non dimenticare, mi ripeté più volte, sei, quattro ed otto!-
Impressionato dall’apparizione e turbato dalla rivelazione, gridai, ad alta voce, nel sonno:
- Ho capito, state tranquillo, sei, quattro ed otto!-
Mia moglie, sentendomi parlare, accese la lampada e vide che mi agitavo, in un bagno di sudore. Allora, pensando ad un incubo, mi svegliò, dandomi l’occasione di raccontarle il sogno. Senza perdersi d’animo, scense dal letto e si diresse verso il vecchio comò, dove scrisse i tre numeri, dietro una immaginetta della Madonna di Pompei, che aveva sul marmo ingiallito, insieme ad altri santi e fotografie di defunti.
A quel tempo, lavoravo a Napoli per una società edile, trasportando materiali da costruzione da un cantiere all’altro. Mi alzavo alle sei di mattina, per trovarmi alle otto sul posto di lavoro, dove, tranne una piccola pausa per il pranzo, lavoravo ininterrottamente, fino alle diciotto. Quando quel mercoledì mi ritrovai in tasca i tre numeri del sogno, mi sentii quasi obbligato a giocarli al lotto, mettendovi sopra le trenta lire, che mi avevano dato di resto, quando avevo comprato la colazione. Scrissi chiaramente sul foglio i tre numeri che mio suocero mi aveva dato e feci il segno della Croce. Lasciai il botteghino con la spiacevole sensazione di aver buttato quei quattro soldi, che erano, in quel momento, tutta la mia ricchezza.
Tornato a casa, mi preparai a trascorrere il fine settimana in famiglia e dimenticai completamente i numeri, mio suocero e il sogno. La domenica mattina, mi preparai con cura e mi recai a messa. Di poi, mi fermai in piazza, dove gli amici ingannavano il tempo giocando a scopone.
Quando si fece l’ora di pranzo e l’odore del ragù si sentiva il tutto il paese, venne mio figlio Tonino a chiamarmi.Eravamo in nove a mangiare, con appetito, gli “ziti” col sugo ed a preparare, con una minuziosa scarpetta, il piatto per il secondo, un vecchio coniglio, intenerito, con due ore di cottura, nella salsa di pomodori. I miei sei figli mangiarono i pezzi migliori, io divisi con mia moglie e mia madre il costato, i testicoli, e la testa, insaporiti con qualche goccia di “olio santo”, perché sposassero bene con il di vino rosso della nostra vigna.
Quella domenica pomeriggio si concluse davanti al bar Rosa, tra una presa di anisetta e qualche mano di “scopa”, sui vecchi tavoli rossi di bestemmie e bruciati dai sigari. Alle ventuno, mi accolse il letto, riscaldato dal corpo caldo di Maria.
Alle sei e ventisette ero alla stazione vesuviana, con una nazionale incollata alle labbra ed il pigiama sotto i pantaloni, per resistere al freddo umido del mattino. Guardai le vecchie scarpe impolverate e pensai con gratitudine a mio padre Angelo, che me le aveva regalate, erano dure per la doppia risolatura di màstu Giulìllo. Il fischio del treno, che proveniva da Sarno, pose fine alle mie riflessioni. Salii sul vagone più vicino, accomodandomi sul sedile di legno, nel senso di marcia della carrozza. Il finestrino aperto mi fece rabbrividire, lo richiusi fissando quelle distese interminabili di campi, che erano il vanto dell’agro e la dannazione dei contadini, che vi buttavano il sangue dall’alba al tramonto.
A Poggiomarino, salirono alcune donne e numerosi proprietari di negozi, che andavano a rifornirsi al mercato napoletano. Un controllore mi chiese il biglietto, mentre un bambino piangeva tra le braccia di una giovane donna, vestita di nero, con un paio di scarpe maschili ed una maglia grigia, rattoppata ai gomiti. Il rumore delle rotaie, regolare e monotono, accompagnava i miei pensieri ed i paesi vesuviani, mi venivano incontro, come le immagini nebulose di un vecchio film senza colore, con le macerie di una guerra non ancora dimenticata.
Tutto divenne vivo e palpitante, quando giungemmo alla stazione di Napoli, la città dove si inventa la vita ed il dolore si supera col canto. Presi il tram ed alle otto giunsi sul posto di lavoro, dove dimenticai ogni cosa fino all’ora di pranzo. Erano le tredici,
quando divorai un grosso panino con pancetta e pepe e mi recai al bancolotto per controllare i numeri del mio sogno incredibile.
Sulla vecchia porta di legno, della piccola ricevitoria, erano scritti, a caratteri cubitali, tutti i numeri sorteggiati e, tra essi, sei, quattro ed otto, la terna che, la settimana prima, avevo giocato, su tutte le ruote. Il cuore mi saltò in gola. Entrai, emozionato, nel botteghino e consegnai il biglietto della giocata. Una vecchia signora, con un vestito nero e le dita inanellate, mi consegnò tre biglietti da diecimila ed uno da cinquemila. Era, all'incirca, la somma da me pagata al marmista, per la lapide a mio suocero.
Franco Pastore