i caporali della morte

 

 

Il  lungomare  era  gremito  in  tutta  la  sua lunghezza. Nella parte interna dei giardini  vecchi‚ due travestiti passeggiavano scimmiottando verso  un gruppetto di giovinastri‚ seduti su motociclette  di grossa cilindrata.

       Più  avanti‚  dal lato  della  strada‚  alcuni anziani della Salerno vecchia, con occhi lucidi, guardavano i cartelloni del "DIANA"‚ con scene di coito orale rese ancora più intriganti, dal piccolo  riquadro nero del sesso. Un  nutrito  gruppo  di  "dritti"‚  davanti  al Varese‚  commentava  vivacemente  l’ultima   partita della Salernitana‚ mentre le macchine, come pecore ordinate, si  dirigevano lentamente verso il caos di piazza   della   Concordia. Faticosamente le filovie guadagnavano verso il bar Nettuno‚ dove gruppi di giovani  attendevano i "caporali della morte".  Poveri figli di mamma‚ con le pupille  dilatate e lo  sguardo di  chi ha smarrito la strada della vita!

        Il locale‚ angusto ed  affollato‚ raccoglieva giovani  di ogni ceto sociale; sul gradino‚  a  lato della porta a vetri‚ una quindicenne‚ con gli  occhi cerchiati‚ parlava ad un ragazzo più grande di  lei di  qualche  anno.  La voce era  sottile‚  quasi  un pianto.

        Un rombare di motociclette ed eccoli i caporali della morte‚ con le zazzere pidocchiose  le camicie aperte e le catene d’oro  che  ballavano sul petto. Una  renault   parcheggiò più  avanti. Un  giovine  sui trent’anni‚  col  viso  da idiota‚si avvicinò ai ragazzi i quali‚  mossi da ansia e paura‚ l’attorniarono. Passò  una  "pantera"‚ rallentò‚ un  uomo  in divisa  guardò‚ osservò‚ poi l’auto riprese  la  sua corsa  verso  il Bar Canasta,  dove  alcune  puttane pigliavano  il caffè, in attesa del primo turno  di lavoro. La sera era afosa ed il lungomare‚ dalla  parte delle  piscine, puzzava di meno.   Sul  muretto che  delimitava  la spiaggia tra le scuole e la  carnale, coppiette   isolate   di   giovani  amoreggiavano, incrociando  le  lingue  e frugandosi  con  le  mani incerte tra le cerniere aperte dei jeans. Una prostituta, nell’attesa dei  clienti‚ fumava nervosamente una “capri”. Ad un centinaio di metri‚ una folta schiera di bambini godeva da pazzi al suono allegro delle giostre.

      Dietro le baracche‚ verso il mare, tre  giovani si iniettavano la droga. Mario  buttò  via la fiala vuota  ed  imprecò mentre calava la manica della camicia: non avvertiva ancora  gli effetti del suo "paradiso  artificiale"‚ gli occorreva una dose più forte.

      Intanto‚ una bambina scese dal cavalluccio e si avviò con la madre sul largo del marciapiede; il rumore del mare attirò la sua attenzione e  scappò sulla spiaggia. La mamma la chiamò‚  poi la  rincorse‚ raggiungendola nell’istante in cui  la piccola  stava chinandosi per prendere la  sabbia.  Mario vide la borsetta, che pendeva dal gomito della  donna e   si  avvicinò.  La  bimba  faceva  i   capricci‚ creando problemi  alla mamma, che  cercava  di afferrarla. Fu  in  quell’istante  che  il  giovane cercò  di scippare la borsetta. Non vi riuscì. Mario non  ebbe  scelta, diresse la mano  al  collo della  poveretta e tirò la catenina‚ finché  non venne via‚ lacerando la pelle al lato della gola. La donna portò una mano al collo e tra gemiti soffocati cercò di fermare il sangue, premendovi , con forza,la mano. Le dita divennero rosse come lo smalto delle unghie.

- Mamma‚ Mamma!  - gridò la bimba piangendo.

        Mario  salì  sulla motocicletta e  si  diresse velocemente verso Pontecagnano.  I    giornali  non  riportarono  la  notizia  del Fatto‚ ma "TeleSalerno uno” parlò a lungo della bambina e del ricovero in ospedale della povera donna. Mario seguì fino  in  fondo il telegiornale‚ poi  scappò via‚ sbattendo l’uscio di casa. La  moto  sfrecciò per il  lungomare‚  in  una gimcana  verso  la morte: il  motore,  schiantandosi contro un autocarro‚ tacque.  Una renault era ferma lì‚ a poca distanza‚ come un carro funebre;  l’uomo la volante imprecò contro la malasorte: la morte di Mario significava un consumatore in meno. La  fila  si mosse e la renault  scomparve  nel traffico cittadino.

       Settembre   era  ormai  finito  e  le  spiagge andavano sgombrandosi di coppiette,   solo la  lunga passeggiata del "Pennello” era gremita;  i giovani‚  nella  complice  oscurità‚  vi   facevano all’amore  o si drogavano‚ martoriando  con  piccoli aghi le braccia segnate. Angela  avanzò   barcollando‚ attraversò faticosamente  piazza della Concordia e  si  diresse verso il grande parcheggio‚ al lato del Bar Canasta. La  renault  era  ferma  nei  pressi  della cabina telefonica‚  la  ragazza la raggiunse  e     parlò all’uomo al volante:

- Ti prego, ho bisogno di una dose! -

- Li  hai  i  soldi? -    le fu chiesto, con  un sogghigno, 

- Li avrò domani, dammela ti prego! -

-Entra in macchina e guadagnatela! –

Angela passò dall’altro lato ed entrò. L’uomo si sbottonò i pantaloni , poi prese  la testa della ragazza e la calò con  forza, artigliandole  i capelli biondi. Angela  non  sentì dolore  ed  aprendo le labbra, ebbe la  speranza  di ottenere quel che aveva chiesto.

       La  prestazione non fu pagata e  l’infelice si allontanò col  disgusto più profondo:    disprezzava il mondo intero, ma di più se stessa ed aveva  voglia di morire. Verso le ventidue, rientrò in casa e non rispose alla  mamma, che le chiedeva dove fosse andata. Si rinchiuse nella sua stanza,  lasciandosi cadere  sul  letto.  Dalla  camera  accanto‚ le voci concitate dei genitori le fecero compagnia fino a tarda notte. Poi, tutto finì in un gran silenzio. Si svegliò di soprassalto, con un cerchio alla testa e la bocca disgustosamente impastata.  Guardò l’orologio: erano le due del mattino. Andò in bagno e vomitò. Ritornò nella camera con un senso di angoscia e  di  solitudine. Si  sentiva sporca, disperata ed inutile. Aprì il balcone e tenda si mosse,  mentre la lampada sul comodino disegnava lunghe ombre sulla parete della porta. Si girò lentamente, dirigendosi verso  il basso comò, dove prese una piccola bambola di stoffa; la strinse al seno e la bagnò di lacrime. Aveva smarrito  i  sogni  della  sua   infanzia. Era stanca di violenza, nella  famiglia, nella  sua  città e nella scuola, dove  pensava  di conquistarsi un avvenire. Si  diresse  nuovamente verso il  balcone:  era come  se  la vita si fosse fermata alle  soglie  del tempo e desiderò conquistare il nulla. All’alba, trovarono il suo corpo, senza vita, sulla strada; nella mano destra stringeva la sua ultima bambola di pezza.

       Lentamente, la città riprese il ritmo di tutti i giorni e la vita continuò, con la voce di sempre, caotica, disumana e senza pietà per i deboli. Una Renault passò sotto il balcone di Angela‚ rallentò, riprese la sua corsa, mescolandosi alle macchine dei pendolari, alla periferia della città.

 

Franco Pastore

 

 

 

 

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