IL PENTIMENTO

 

Sabato 6 settembre 1947,stavo lavorando sulla mia solita sedia accanto alla vetrina, finito il filo, mentre infilavo l’ago per continuare alzavo la testa per guardare la gente che passava (la sartoria si trovava in un punto strategico: chi andava al mercato per fare la spesa doveva necessariamente passarvi davanti), era quasi il tramonto e i passanti erano rari, solo una ragazza, l’avevo notata mentre si dirigeva verso Via Cimarosa e rimasi con il filo in bocca e l’ago per aria, i suoi occhi neri e fondi: neri come la notte, fondi come il destino mi avevano lanciato il dardo di Cupido. Dopo cinque minuti la ragazza dagli occhi neri e dai capelli corvini ripassò.  Aveva una rosa in mano e incrociando il mio sguardo baciò la rosa e mi guardò con intenzione. Ripresi il lavoro col tremore nel cuore, Dio, avrei voluto rincorrerla, parlarle dirle quello che mi scombussolava, ma non potevo lasciare il lavoro senza un motivo valido. In quel momento la voce del principale mi svegliò:

- Che pensi che quella ragazza passi e ripassi qui davanti per la mia bella faccia? Appena ripassa corrile dietro e fatti dare un appuntamento.

Rimasi scioccato. Sapevo che il principale mi voleva un sacco di bene, ma non avrei mai immaginato… Non terminai il pensiero che la rosa rossa si posò sul davanti della giacca che stavo lavorando. Alzai gli occhi, ma lei era già sparita, posai il lavoro e corsi in strada la bloccai all’angolo di Via Kerbaker con Via Cimarosa, la presi per un braccio: non si ribellò, ma mi sorrise e non capii più niente. La strada, la sua immagine, quello che ci stavamo dicendo, era tutto un mulinello, stavo per cadere e mi aggrappai alle sue spalle, sfiorando con la mia la sua guancia; non si ritrasse, anzi mi diede un bacio e barcollante ritornai in sartoria.

Il giorno dopo, passai tutto il pomeriggio della domenica sotto l’arco dell’entrata della funicolare di Chiaia (pioveva a dirotto), finché verso le diciannove sento una melodia soave che m’avvolgeva e m’infondeva entusiasmo:

- Non vedi che piove, che ci fai qui?

- Speravo d’incontrarti.

- Io abito in quel palazzo, al quarto piano, ti ho visto dalla finestra e sono scesa per coccolare il mio «Pulcino».

Prendemmo l’abitudine di vederci tutte le sere dopo il lavoro e la domenica pomeriggio. Le misi il nome di due note, le più musicali: RE e SI e presi a chiamarla Resi. Sorridendo mi disse che la stavo prendendo in giro perché sapendo il nome lo avevo accorciato facendolo diventare un bisillabo…

- Allora dimmelo tu il tuo vero nome.

- Mi chiamo Teresa…

- E tu pensi che io?…

- Perché non è così?

Ci lasciammo e domenica 12 ottobre non andai al Vomero ma andai con Tonino a vedere la sceneggiata con Gigi Pisano: avevo appuntamento con lui per un provino. Incontrai Pisano prima dello spettacolo e mi offrì anche il caffè, mentre Maria Paris cantava una canzone del suo repertorio, un’altra voce si accavallo a quella della giovanissima cantante: «Perché non vieni, ti sto aspettando con uno spasimo nell’anima».

Lascia il teatro e corsi al Vomero, Ella era fuori la funicolare centrale. Appena mi vide mi buttò le braccia al collo. Dopo dieci minuti l’avevo perduta. Giunge una signora vestita con eleganza che mi suonò tanti di quegli schiaffi, che furono il triplo di quelli ricevuti da mia madre, mio padre e mio nonno, insieme; e a lei sentenziò che il giorno dopo sarebbe partita per un collegio in Svizzera.

Mi rubarono l’amore, la vita, la gioia di vivere… Cambiai principale per non vedere più i luoghi che mi avevano illuso facendomi toccare la felicità e poi sprofondato nel «Lago Cocito».

Andai la lavorare da un sarto che abitava alla Sanità, scriveva canzoni e lì conobbi anche Totò, quel sabato, il Principe mi aveva fatto dei complimenti la mia poesia gli piaceva, ero contento. Quel sabato 13 ottobre 1951, camminavo per Via Foria, per ritornare a casa in Via Pasquale Scura; alla Fontana delle Paparelle, una ragazza attirò la mia attenzione, mi avvicinai e specchiandomi nell’acqua sussurrai:

- Amo quella che è in fondo e mi sporsi, gli sguardi s’incontrarono nell’acqua e un solo grido riempì la strada: «Amore mio!» Erano passati quattro anni, eterni: io per non pensarci corteggiavo una ragazza il  giorno e la mollavo dopo aver fatto all’amore. Ero diventato una carogna, mi facevo schifo eppure continuavo a vivere e a correre dietro alle ragazze.

A casa scrissi:

 

LA FONTANA

 

Con una nuova speranza

ritorno in quel sentiero di bosco

accanto alla fontana.

Un giorno, chini sull’acqua,

ti dissi “Amo quella ch’è in fondo”,

e tu sorridesti confusa.

Ora più nulla resta del sorriso,

più nulla resta delle mie parole.

Ma la fontana è là,

con una nuova speranza.

Era un punto di riferimento per incontrarci ogni sera per raccontarci che cosa erano stati i suoi giorni in collegio e i miei sperduti e inconsapevoli rifugi nel cambiare una ragazza il  giorno.

 

 

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

indietro

 

tumblr visitor