l'ira del sud (*)

 

 

Casella di testo:    presentazione Casella di testo:       Si si 'n' òmme,

 

  

Parte prima

         Oltre le gole selvagge del monte Marzano, la valle  del Sele si estende a Triangolo tra l'Alburno ed i monti Picentini. Tra i lembi estesi di terrazze fluviali‚ il Sele si allarga ad irrorare la pianura, un tempo inospitale e malarica. La nostra storia si svolge‚agli inizi del ventesimo secolo, in quella parte della valle chiamata "fémmena morta", in seguito al  ritrovamento del cadavere di una donna che  non  fu  mai  identificata.  A  quel tempo,  vaste  masse  di  proletari, coloni e  contadini,si addensavano là dove   forma capitalistiche di conduzione si  erano  insediate in un contesto sociale dominato da “residui feudali” e  dalla assoluta  mancanza di una regolamentazione giuridica‚ che garantisse la  tutela  dei prestatori di opera,vittima dei caporali. Questi  ultimi attuavano una vera mafia d'ingaggio, impedendo il contatto diretto tra padroni e lavoratori ed avvantaggiandosi, indebitamente, sul compenso del lavoro. Nel contempo, taglieggiavano le loro vittime, pretendendo utili per l’arruolamento. Su di un guadagno complessivo di venticinque lire,  essi truffavano sino a sei lire, continuando l'opera con atti di strozzinaggio ed imponendo prestiti iniziali a tassi impossibili. Altri ancora‚ contro  ogni legge morale, pretendevano che le donne alzassero le gonne e soggiacessero alla loro voglie. Don Filippo Capo apparteneva a questi ultimi‚ e non perdeva nessuna occasione per trarre benefici  economici  e sessuali‚ in tutta la pianura.

       I Farnesi ed i Casati era i più grossi latifondisti della valle ed egli era procuratore  di entrambe la famiglie. Senza figli, aveva per  moglie un curioso animale, che somigliava ad una donna  per  via di due grosse protuberanze, che le gonfiavano  la  veste nella parte  alta  del  corpo. Angelina, così  si  chia-mava,  spettegolava  su  tutti‚ compiacendosi del lavoro del marito e del timore che incuteva negli altri. Basso, tarchiato, con la barba rada,  che  si  concentrava nella  parte  alta  delle guance‚ portava  a spasso un naso  piuttosto  grosso e sgraziato, sotto due occhi porcini. La  pelle olivastra‚sudaticcia e maleodorante,   si  accompagnava ad  una  voce  roca,  bassa a volgare.  Un ciuffo di capelli, lisci, unti e neri come il carbone, gli cadeva sulla fronte, segnata da una brutta cicatrice. Uomo di fiducia, don Filippo percorreva la lunga  "carrara" (1),  sul  leggero calesse, tirato da "Diavolo", un cavallo snello a nervoso, e sorvegliava  i  lavoranti, da un capo all'altro del territorio, compiendo‚ ogni giorno‚ un lungo

giro per Pagliarone e la zona  collinosa a valle di Capaccio. Al suo passaggio,le donne si facevano il segno della croce,  mentre  gli uomini, fingendo di ignorarlo‚ stringevano i denti e sbiancavano le nocche sull’asta delle zappe dalle lame lucenti.

     Erano  circa la tredici, quando  arrivò  nella zona  dei  salici, che facevano da  confine  tra  la terra  buona ed il "deserto" : una lunga striscia  di terra, oggi chiamata "Licinelle", bruciata dal  sole a schiaffeggiata dal mare. Alcune  donne si riparavano dal sole, sotto un grosso albero di gelsi rossi, tra esse vi era Nunziatina, una giovanetta di una bellezza esuberante: sedici anni‚ forse diciassette‚ con un casco di capelli neri‚ come i suoi occhi irrequieti‚ ma limpidi come l’acqua d’una fonte. La camicia leggera aderiva alla pelle sudata, mostrando l'abbondanza dei seni turgidi, sul ventre piatto. Una gonna a campana, che la leggera brezza incollava all'inguine, alle cosce ben fatte, metteva in risalto la figura agile a slanciata della giovane.Le donne si segnarono,

la  fanciulla  scappò, scomparendo  tra i cespugli ed i fichi d'India. Don Filippo spronò il cavallo e la seguì. Sudava, il fazzoletto, intorno al collo taurino, era bagnato  e la camicia, aperta  sul davanti, lasciava  intravedere  rivoli  di  sudore,

tra i peli  del  largo torace. Ad un tratto, la vide. S'arrampicava sui sassi che delimitavano la terra dei Casati.  La  raggiunse.  La fanciulla si  girò  pronta-mente‚  come  una tigre che si prepara all'assalto: con  la  fronte  corrugata,  sugli  occhi duri, fronteggiò l'uomo che, sceso da  cavallo,  si  avvicinava  lentamente a

lei. 

       Con  le  spalle  contro  il  muretto  a  secco‚ Nunziatina ansimava, cercando scampo con gli  occhi. Le braccia tese artigliarono all'indietro due grosse  sporgenze nel muro. Fece forza ed una di queste cedette. La fanciulla si sentì protetta. Lanciò la pietra ed il sangue sprizzò fuori velocemente dalla fronte dell'uomo  che, con un urlo di rabbia, si lanciò  in  avanti,  afferrandola  nel punto in cui  i  due  seni   formano il lungo solco d'amore. Il tessuto cedette e la fanciulla  coprì‚ con le  mani‚ la  pelle eburnea. Negli occhi dell’uomo una luce

torbida  e  cattiva. Intanto‚ l'altra  mano artigliava  le gonne che, strappate nella

parte alta, si raccolsero ai piedi della fanciulla nuda e tremante.

       Uno stormo di uccelli volò via in direzione della piana‚ mentre l’eco di uno sparo si infranse sul fianco della collina‚ tra gli ulivi ricurvi.

       Le  mani  dell'uomo era d'acciaio,  un rivoli di  saliva scendeva, dall'angolo delle labbra a fessura, sul mento sudato. La terra secca graffiò le spalle delicate di  Nunziatina che, esausta, abbandonò ogni resistenza. L'immagine del cielo divenne nebulosa e scomparve, mentre il membro dell'uomo le straziavano il ventre.Gocce di sangue bagnarono la leggera peluria‚mentre, sui seni martoriati,

tracce di bava inumidivano i piccoli capezzoli rosei. 

       L'uomo si alzò, si chiuse i pantaloni‚ tolse con l'indice destro il sudore dalla fronte e sghignazzò:

- O lupe s’è futtùte ‘a pecurèlla ... ‘a notte nù durmìa pensànne a tè ! Ma‚ te lo giuro! (bacia le dita a croce e sputa a terra) Da oggi, ci sarà sempre lavoro per te a la tua  famiglia -.

       Salì a cavallo e scomparve. La  fanciulla incominciò a riprendersi ed  aprì lentamente  gli occhi verso il cielo di  un  azzurro  intenso.  Un  coro di cicale davano  colore  a  quel   maledetto pomeriggio. Nunziatina cercò di  alzarsi, ma  ricadde  supina‚ con  le  mani  sul  ventre  dolorante ed una sensazione di vomito l'assalì.  Si girò di fianco  a  vomitò  sulla  terra bruciata. Si  sentiva  sporca insozzata ed   aveva una gran voglia di morire. Si sentì chiamare, guardò giù verso il pendio e  vide due donne, che venivano nella sua direzione. Non  rispose. Raccolse accanto a lei quello che  rimaneva  dei suoi panni e cercò di coprirsi. La raggiunsero. 

­- Non vergognarti, figlia mia!- ­ 

- Dio lo punirà quel mascalzone! -.

       Una  della due, tolse dal capo il fazzoletto  e  cercò di pulirle le cosce, mentre l'altra le asciugava delicatamente i seni. Nunziatina singhiozzava. Dopo circa  una mezza  ora la fanciulla ripresasi alquanto, fu riaccompagnata a casa. 

       Verso la otto di sera Felice‚ il fratello della ragazza, rincasò.La pallida luce

del lume  a  petrolio  rischiarava a mala pena l'ambiente‚ annerito dal fumo del

focolare. In un angolo, un piccolo  mucchio  di  legna secca, attendeva di essere acceso per la cena. Sulla spalliera d’una sedia impagliata, un asciugamano

logoro gocciolava in una bacinella  di acqua ed aceto. Felice entrò chiudendo la

porta con un calcio all'indietro. Il saliscendi scattò. Andò verso la finestra aperta e fischiò, poi chiamò, con voce secca, ma non fredda: - Baró -. Il cane guardò verso di lui e si avvicinò, scodinzolando. Il giovane tolse  la camicia, e prese a

massaggiare, con  la  grossa  mano, la braccia stanche. Di poi, chiamò:

- Mamma! -

- Nunziatina! -

Nessuno rispose. Bussò‚ poi spinse adagio la porta della camera  da letto : la sorella giaceva in un bagno  di  sudore :  il  delirio  alterava  i  lineamenti  della  giovane, che sembrava  rivivere  l'incubo  di  quel  pomeriggio.

Una donna, sui cinquanta anni, alzò lo sguardo  verso di lui:

-Figlio mio‚ disse con voce rotta dal pianto, il disonore a la morte sono entrati in questa casa ! -

Sul  vecchio comò, un lume ardeva  davanti  al  ritratto di un uomo, mentre, al lato destro  della  cornice, l'immagine della Madonna  di  Pompei  formava  un singolare altare di numi  tutelari‚ che sintetizzava un unico grande rispetto per la morte e la fede. Felice strinse i pugni:

- Chi? - chiese, guardando con dolore la sorella;

-­ Chi  è  stato! -  ripeté  con  voce alterata, stringendo i pugni ed imprecando tra

i denti.

La  donna non rispose, abbassò lo sguardo  verso il fazzoletto che aveva in grembo e strinse tra le dita i nodi del Rosario.

- ­ Ma’, chi è stato ! -  ­ chiese ancora il giovane‚ provando una pena profonda per le lacrime della vecchia.

­-  Don  Filipp'ò capurale...-­  rispose  la  donna,  tutto  d'un fiato, come se avesse voluto liberarsi  di  un  grosso peso‚ ma perfettamente consapevole delle conse-guenze, che quella verità avrebbe avuto sul figlio Felice. Il  giovane,  uscì dalla stanza senza dire una parola‚ rimise  la  camicia, che aveva appena tolto e stava  per  varcare  la soglia di casa‚ quando il grido disperato di sua madre‚ per un breve attimo, lo bloccò:

 ­- Fìgliu mio, nunn'ascì, statte ccà cu' mamma toia!-

Felice,  dopo un attimo di esitazione,  sbatté  la  porta  dietro  di  sé  e  si  addentrò nella campagna. Rimasta sola, la povera donna si accasciò  sulla sedia:

- Gesù e Maria, mò che succede? – quella accorata invocazione si trasformò in una preghiera che  accompagnò il lento scorrere del rosario, tra le dita avvezze al duro lavoro dei campi.

     Nell'altra stanza, Nunziatina, ripresasi, chiamò  la madre; la donna accorse, mentre il  cane  lanciava lunghi ululati nella sera.     

     Felice‚  intanto‚ aveva raggiunto la  casa  del  cugino  Gaetano. Fischiò tre volte‚ dal lato  della  finestra sopra il pergolato e rimase in attesa.

    Il  cane,  riconoscendolo, gli andò  vicino,  senza abbaiare, ma il giovane lo allontanò bruscamente:

-­ Va via‚ disse‚ la selvaggina di questa battuta  va  lasciata ai vermi! -.

 Dieci minuti dopo‚Gaetano lo raggiunse. Si allontanarono, dirigendosi verso il

 pozzo.

-­ Che succede, Felì ! – gli chiese il giovane‚ senza nascondere una certa apprensione.

- Succede che…-il  giovane scoppiò in  singhiozzi ed  afferrando  il  cugino  per  le spalle  aggiunse:

- 'Aimm'accìre chélla carogna! – (2)

­- Chi?- chiedeva Gaetano, già in preda ad una agitazione profonda;

­ - Don   Filippo  'ò  capurale" ha   sverginat'à Nunziatina, che sta murènne! -.

Gaeta portò entrambe la mani al viso e, dopo  un lungo silenzio, disse:

­ - Calmate‚ giustizia sarà fatta, pàtreme ìsse  l'ha accìse! -­ 

 Si avviarono verso l'interno della  campagna‚ per decidere il giorno a l'ora della

vendetta.

     Quella notte fu tremenda per Felice: i gemiti della sorella accrescevano in lui

un furore mai provato prima; la mamma vegliava  la  fanciulla senza concedersi

un istante di riposo. Nei momenti in  cui  il sonno distendeva i lineamenti della  sventurata‚ la dita scorrevano i nodi del Rosario‚che accom-pagnava con penosi sussurri di preghiera. E venne l'alba.

       L'aria  fresca del mattino avvolgeva la natura ancora  addormentata; piccoli

voli incoraggiavano i primi  raggi del sole. Felice uscì sull'aia a si diresse verso il pozzo. Il  secchio  venne sù gocciolando acqua  limpida e fresca. Vi immerse  il viso, passando la mano bagnata sul collo e sui capelli scomposti. Si raddrizzò  massaggiandosi il torace villoso e le braccia pesanti. Prese il secchio e lo svuotò   in direzione del basso vigneto di uva fragola‚ ancora acerba.

      Adagiò il secchio vuoto sul muretto del pozzo e‚ con  passi lenti‚ guadagnò

l'uscio di casa. Mamma Rita aveva acceso il focolare ed  aveva messo  a  bollire dell' acqua con delle  piantine  di  camomilla.

- Ma’‚ come sta Nunziatina? - chiese il giovane  sottovoce.  

- Come deve stare, povera figlia mia! Sta riposando - 
 Giunse dalla carrara un  lungo fischio:  era  Gaetano che chiamava il cugino.

- Ciao mà!-

-Buon lavoro‚ figliu mio!-.

 Si recarono nei pressi della fontana‚ di fronte alla terra di compare Picariello‚ lì  avrebbero atteso l'offerta di lavoro. Altri giovani aspettavano l'arrivo del
Caporale, con la speranza di guadagnare qualche lira. 

     Il sole illuminava il bianco delle rade case‚ voli di passeri, tra gli alberi dalle fronde immobili. Un gregge  s'arrampicava per la stretta mulattiera, che portava  su in collina ed un grosso cane da pastore andava avanti ed indietro‚guidando le bestie al pascolo. Un rumore di zoccoli‚ avvertì gli uomini che don Filippo   stava arrivando. Gaetano strinse il braccio del cugino per invitarlo alla calma. L'uomo arrivò e‚ senza smontare da cavallo:

     -­Oggi c'è lavoro solo per due! Tu e tu‚ disse, ­indicando Felice ed il cugino‚ venite nel fondo di compare  Sabia, che c'è da zappare -.

Non  ebbe il coraggio di guardarli in faccia, e non perse tempo ad allontanarsi‚ scomparendo‚ subito dopo‚ dietro il boschetto di salici. I due giovani si avviarono. 

 Parte seconda

           Sull'aia‚ tutto il paese attendeva che la  bara  uscisse.  Sebastiano  guardava  il  pozzo‚  come  se  l'anima  di Nunziatina dovesse schizzare fuori da  un  momento  all'altro. Gruppetti  muti, soffrivano  il  caldo nei vestiti pesanti,  altri commentavano  il  dramma,  sottovoce. Dopo circa  mezz'ora‚  dall'uscio  spalancato‚ le  lucide sfaccettature della bara brillarono al sole. Quattro  uomini  reggevano  il  feretro  sulle  spalle‚ con la  tempia  poggiata  al  legno  lucido.  La commozione  prese  tutti. Felice seguiva subito dopo‚ col bavero della giacca alzato e  la barba sul viso stanco‚ tirato. Gaetano e  l'amico  Giuvanniello  gli stavano a  lato‚  tenendolo  sotto  braccio.

Cummare  Rita‚  tutta vestita di  nero‚  veniva avanti urlando al mondo intero il suo dolore :   - Figlia  mia‚ t'ann'accisa!- ­

       Il  corpo  le  si piegava  in due‚ nello sforzo di superare la  grande  sciagura. Rosa ed Ersilia‚ le due donne che avevano  soccorso  Nunziatina  dopo  li  stupro‚  le  stavano  accanto‚ reggendola in tutto il suo peso. Il  feretro si  mosse lungo la "carrara". Il  pianto  disperato  la vecchia risuonò nella piana‚ con i  rintocchi  della campana e gli ululati di Barone‚il cane di Nunziatina. 

       Sulla collina  di  "Spinazzo"‚ Don Filippo‚ dritto  sul  sul  cavallo‚ seguiva la  scena  e non provava altri sentimenti, oltre la paura. Il sole‚ alle  sua  spalle‚ dava alla sua figura un non so che  di  irreale e di diabolico insieme.  Felice‚  come  attratti da  una  forza  irresistibile‚  guardò  nella  sua direzione e lo scorse. Strinse gli  occhi  e  mosse affermativamente il capo‚ giurando‚ su  quel feretro‚ che gli avrebbe preso la  vita. Anche Gaetano guardò ed un unico sentimento lo unì al cugino.  

     Nella  piana non si lavorò quel giorno. Tutti avevano lasciato i campi‚ nelle prime ore del mattino e nessun sorvegliante aveva avuto il  coraggio di  intervenire. La ricchezza dei poveri è la solidarietà,  che unisce  gli animi nella cattiva sorte. Tutti i  braccianti  della "piana” avrebbero alzato volentieri la  zappa contro l'ingiustizia‚ perché ci sono limiti‚ oltre  i quali  nessuno può andare: oltraggiare l'onore‚ quando questo è l'unico bene posseduto‚ è un delitto

che si paga con la vita.

      Don  Filippo questo lo sapeva e se  ne preoccupava‚ nell'attesa impaziente di Micheluccio‚ un tirapiedi‚ cui aveva dato l'incarico di vedere come stavano le cose. Si  udirono dei passi fuori casa, trasalì. Si precipitò alla finestra e lo vide :

­- Entra‚ fai presto! -­ gli intimò.

Il giovane entrò e, togliendosi il cappello:

-­ Brutto segno Don Filì‚ quando la gente non parla, è  pericoloso avventurarsi nella piana -.

 Il "caporale”  si avvicinò alla finestra, fissò l'orizzonte‚ per un lungo instante e  mille pensieri lo assalirono, mentre il sole dipingeva di rosso il tramonto. Poi‚ girandosi di scatto, disse:

- Sempre pècore sono! -

- Tieni cumpariè, bevi alla mia salute! -

  Micheluccio vuotò in fretta il  bicchiere  di  vino e si congedò. Il caporale lo vide correre come  se fuggisse da un appestato.

- Schifosa carogna! -

       L' insulto gli veniva dalla moglie, che ora vedeva in pericolo il suo futuro e

la sicurezza  economica.  Don  Filippo afferrò il fiasco ancora pieno e lo lanciò contro la donna‚ che si scansò appena in  tempo, mentre  il vino si sparse  come  una grossa  macchia di sangue, sulla parete bianca. Angelina  scappò  più  per superstizione‚ che per paura. Intanto‚ nella casa di Felice‚ il silenzio  era  totale. Donna Rita si riposava sul letto  al  posto della  povera figlia e‚ nella cucina‚ il giovane si intratteneva con l'amico Giuvanniello ed il cugino Gaetano.

       Il lume a petrolio‚ al centro del  tavolo‚ illuminava scarsamente l'ambiente;

il cane‚ accucciato al lato della sedia del padrone‚ emetteva strani mugolii. Bussarono. Gaetano andò ad  aprire; un  ragazzino scalzo  gli  porse  un cesto di taralli ed un  fiasco di vino‚ la  porta  venne rinchiusa. Nessuno  aveva voglia di 

mangiare‚ l'immagine della ragazza era ancora  tra  loro: l'avevano  tirata su dal     

pozzo‚ dove si era gettata con la  forza  della  disperazione.

       Era stato Giuvanniello a calarsi  giù  ed a  legare  la fune intorno al  cadavere.  Il  capo‚ col collo spezzato, dondolava come quello di una bambola rotta. Gli occhi sbarrati sembravano guardare il muretto del pozzo. La lunga camicia da notte, attaccata al corpo fradicio di acqua gelida,gocciolava. Il  piede sinistro era privo dell'alluce, troncati nella  caduta, dalle pietra  viva  del pozzo. I bei capelli  neri erano aggrovigliati come  una  informe  matassa  melmosa.

         Felice aveva preso il corpo della sorella e  l'aveva  portato  in  casa  adagiandolo  sul   letto  intatto.  Aveva pianto col capo poggiato sul  ventre  profanato ed aveva sentito il gelo della morte. Giuvanniello  tolse dalla tavola i "taralli”  e  versò  il vino nel  bicchiere. Felice  bevve  tutto  d'un  fiato come per allontanare la scena  di  morte del giorno prima. Quel  vino  gli sembrava  sangue  che  chiedeva altro sangue a bevve ancora, fino a stordirsi. 

      Nella piana il lavoro riprese con ritmo normale. Agosto volgeva a termine con i suoi giorni infuocati ed una strana calma sembrava aleggiasse nell'aria. Il sole era calato da circa un'ora‚ quando Felice si  fermò poco più avanti del podere di compare  Sabìa‚ sedendosi  sul  tronco  di un salice. Accese  una  sigaretta guardando fisso verso l'incrocio‚ dove la  carrara lasciava intravedere una strada più grande‚ percorsa da una lenta carovana che‚ dall'agro nocerino‚si avviava verso la salita di Ogliastro.  Era tempo di mercato ed i commercianti‚  appisolati sul piano dei carretti‚ carichi di semenze‚si affidavano alla esperienza dei muli‚ che già conoscevano la strada. 

    All'imbrunire‚ arrivò Gaetano, reggendo, con ambi  la  mani. l'asta della zappa :

-­ Sera‚ Felì ­ -

- Sera‚ Gaetà‚ rispose il cugino‚ è molto che aspetti?-

- No ! -

Seduti l'uno accanto all'altro‚ trascorse molto tempo prima che iniziassero a parlare  "del fatto".

­-  Allora‚ quando?- chiese Gaetano‚  rompendo  quel penoso silenzio. 

­- È per domani sera al tramonto‚ lungo  la  strada  dei  salici‚ dove inizia il canale dei Farnesi‚  lì  la strada è piena di buche ed il calesse va piano -

- Va bene! -

Felice  giunse  a casa per ultimo‚ la  madre  sentì sbattere l' uscio a lo chiamò : 

-­  Come stai, mà ?- ­ le chiese il giovane‚ entrando  nella stanza;

- Cumm'à nà vecchia, figliu mio! -

- Va a mangià‚ cà mamma tòia nun se sènte! -.

Felice‚ dopo essersi lavato‚ si accomodò‚ si versò da  bere  a poi scoperchiò il  piatto‚  fissando  i  fagioli ancora caldi. Di mala voglia mandò giù una cucchiaiata ed allontanò il piatto; si avvolse  una  sigaretta‚  fissando  il ritratti  del  padre‚ sulla  parete  di  fronte. Sì alzò‚ si diresse  verso  la  grossa cassapanca sotto la finestra a l'aprì. Prese  il fucile‚ pulendolo  col  panno  che   l'avvolgeva; l'acciaio  della  canna lanciò un  bagliore  sinistro‚ mentre il freddo  della  bascula  diede  al  giovane una sensazione di  potenza  e  di morte.

       Il sonno‚ quella notte‚ tardò a  venire  e‚ solo all'alba‚ vi fu un momento di pace‚ col  canto  del  gallo‚ che annunziava un nuovo giorno. 

       Il sole stava tramontando sul mare tranquillo e gli  ultimi  raggi  proiettavano lunghe ombre  sul  viale  costeggiato dai salici immobili. Un fosso erboso accompagnava‚ a sinistra‚ la carrara  sconnessa.  Don Filippo seguiva‚ a testa  bassa‚  il  bianco  della strada‚ gettando‚ di tanti  in  tanto‚  veloci  occhiate alla ruota del calesse. Il  cavallo  avanzava  lento  sul  terreno spaccato  e  quasi  si  fermò‚quando l'uomo tirò le  briglie :  qualcuno procedeva‚  a piedi‚ avanti a lui : era  Giuvanniello‚ che  tornava  dal  lavoro.

 Il  "caporale”  spronò  l'animale‚  che si portò al trotto‚ ed  il  giovane  fece appena in tempo a saltare nel fosso‚ imprecando  a  denti stretti. Don  Filippo rallentò‚ si fermò‚ e guardò  con  strafottenza  il  povero bracciante  che  chinò  la  testa  in segno di saluto. Il calesse proseguì  per  la  sua  strada‚ sul viso del "caporale”  un ghigno soddisfatto : era il più forte. Giuvanniello risalì sulla carreggiata a fissò  con  malumore   il  calesse  che  s'allontanava‚ scomparendo nella curva più avanti.

       Erano trascorsi cinque minuti circa‚ quando si  udì uno  sparo‚  che si ripercosse  sinistramente  nella piana. Il  giovane  pensò  a qualche  cacciatore  a  tirò  avanti. Dopo un quarto d'ora‚ giunse nella zona dei  salici. Il sole era tramontato all'orizzonte ed una  leggera  brezza‚ che  veniva dal mare‚ muoveva la  cima  dei  grossi  alberi.  Ad  un tratto udì  un  lamento  ed  istintivamente si girò verso il fosso indirizzando lo sguardo lì dove l'erba  sembrava tinta di rosso.  Si avvicinò‚ il corpo di don Filippo giaceva  lungo disteso‚  col  sangue  che  gli  usciva  dal   petto squarciato. La mani destra artigliava l'erba,  mentre premeva la  sinistra sul petto straziato. L'uomo  lo  guardò   sbarrando gli  occhi:  l'angoscia aveva cancellato la strafottenza abituale di suo viso:

 - Aiutami Giuvanniè! -

IL giovane stava per chinarsi‚ poi‚ all'improvviso‚ si  ricordò  di  tante sue  perfidie‚  di  Nunziatina‚  del  funerale‚  degli infelici che‚ come lui‚  sudavano  sangue  per un tozzo di pane e scappò via. Correva come  se avesse avuto le ali ai piedi‚ per soffocare  quell'impulso,  che  spinge l'uomo ad aiutare l'amico‚ il  fratello‚  chiunque si trovi in pericolo.  Don Filippo non  era  un  amico‚ né un fratello‚ ma la  peggiore  carogna  che potesse venire fuori da un ventre di donna. Più  avanti  rallentò  l'andatura‚  aveva  sentito delle  voci  che  gli sembravano note  e‚  di  lì  a  qualche istante‚ si imbatté in Felice a Gaetano. Li chiamò e, con voce concitata, esclamò:

- Hanno sparato a don Filippo!-

I  due  si guardarono e‚ senza una  sola  parola  di  commento‚ proseguirono.

 Giuvanniello‚  che  era un  tipo  sveglio‚  comprese  all'istante ed aggiunse:

- Mi ha chiesto aiuto, è ancora vivo!-

Felice  si fermò‚ sfilò il fucile dalla spalla  e mise  in  canna un'altra cartuccia‚ avendo cura  di riporre in  tasca  quella  già  sparata. Tornò  indietro di corsa a guardò bene in  faccia  l'uomo  che tentava di alzarsi:

- Questo, per la brava gente della piana!-

La canna sinistra  del fucile  tuonò ancora‚ lacerando la  camicia  giù verso  la cintura dei  pantaloni. Il  corpo  ebbe un sussulto e  cadde  all'indietro  sull'erba‚ dove rimase immobile. Felice guardò il sangue che sgorgava copioso,facendosi strada tra la carne squarciata ed il pezzo di camicia bruciacchiata, resisté al forte impulso di vomitare e  si allontanò rivolgendo un pensiero fugace  alla sorella.   

-La caccia è stata buona!­- disse agli amici, fissandoli  per  un lungo istante.

Ripresero insieme il cammino e raggiunsero ciascuno  la propria casa. Calavano le ombre della sera ed  il cielo  si  dipingeva di rosso nel punti in  cui  il  mare   rifletteva  gli  ultimi  raggi  di  un sole calante.

     I lumi già rischiaravano di luce pallida l'interno della  casa, annerita dal fumo, e  l'odore  di  legna bruciata si diffondeva nella campagna. Sui focolari i contadini approntavano il pasto‚ tra la  voci  dei  bimbi  a  l'abbaiar dei cani alla catena. Le  donne  stanche rassettavano gli umili ambienti‚ mentre gli  uomini si ripulivano dalla terra a dal sudore. I vecchi,  seduti  sull'aia‚ pensavano agli  anni  trascorsi e, stringendo tra le mani callose la scura creta della pipa, aspettavano silenziosi  la cena‚ tra una boccata e l’altra dalla canna  ricurva.  Scene antiche quando il  mondo  sul  palcoscenico della "piana"‚ dove la vita  continuava  la sua lenta rappresentazione.

     La campagna andava impreziosendosi  del silenzio della sera‚ quando spuntò un  carretto‚ che avanzava macinando la  terra  con  il  ferri della grandi ruote. Il cavallo‚ sudato‚ tirava  stancamente  il  carico di letame per la  terra  dei  Casati e  Pasquale tratteneva le redini‚ serrandole tra l’indice ed il medio. All'inizio del

lungo   canale‚   incominciò   a  fischiettare  un motivetto inesistente‚ pensando al  piatto  di minestra che avrebbe mangiato tra  breve.  Un lamento‚ seguito da un lungo rantolo‚ attirò  la sua  attenzione.  Fermò il carretto a  stette  più  attento. Poco più avanti‚ gli sembrò di vedere una mano che si muoveva sul ciglio del canale. Scesa  e corse in quella direzione.

- Gesù,don Filippo!-

Due occhi spenti si girarono a guardarlo‚ implorando aiuto‚  con  la bocca che si muoveva‚ senza che  ne uscisse  alcun suono. Pasquale lo tirò fuori dal  fosso, senza  sforzo eccessivo‚ data la sua mole e  la  sua forza.  Lo  adagiò lentamente sul caldo letame ed il  puzzo  del "concime” copri l'odore del sangue. Il carretto si incamminò col suo carico umano. Al  villaggio‚  girò a sinistra‚ verso la  casa  del  caporale  e  si  fermò  sull'aia‚ dopo  un lungo corridoio tra i vigneti. Il cane abbaiò‚ poi corse scodinzolando  verso la coda del carretto.  Angelina aprì l'uscio:

- Buona sera, Pasqualì!-

Il  giovane  non  rispose  e‚ scendendo  dal  carretto‚  prese il corpo di don Filippo Capo  e si diresse verso la casa. La donna avanzò di un  passo e lanciò un urlo. Il  cane  accompagnò  il  corpo  del  padrone.  Micheluccio‚ il tirapiedi‚ udì l'urlo dalla stalla e si precipitò in casa". Adagiarono il "caporale” sul divano.

      Nella propria dimora‚ il ferito aprì gli occhi quando la moglie cercò di ripulirgli il viso con un  panno bagnato. 

- ­ Pasqualì‚ andate a chiamare il dottore‚  correte‚ fatelo per i morti vostri!-

L'uomo  risalì sul carretti a si avviò  verso il   paese.  Don  Filippo  cercò  con   gli   occhi   Micheluccio  a  gli fece cenno  di  avvicinarsi;  il  giovane  abbassò il capo quasi fin sopra le  labbra  di lui:

-.. Il maresciallo... va a chiamare il maresciallo!-

Micheluccio  uscì dalla casa e corse verso  il  paese pigliando la scorciatoia‚ giù per la  piccola  scarpata‚ attraverso il vigneto di compare Albino. Angelina  tolse le scarpe al  marito‚  coprendo  con  un  lenzuolo gli squarci che l'uomo  aveva  nel  petto e nell’addome. La  puzza del letame‚ unita all'odore  del  sangue‚  le  dava  il voltastomaco‚  ma  si  faceva  forza.  Chiamava  il  marito‚  tra  un  singhiozzi  a  l'altro‚ sentendosi impotente‚ finita.

- Chi e stato, Felì-

- Dillo ad Angelina toia!-

L'uomo non rispose‚ girò gli occhi  verso  la porta ed aspettò.

E’  incredibile  la  forza di  volontà  che  spinge l'uomo‚ assetato di vendetta‚ a ritardare la propria  morte‚ anche se nel corpo non scorre più una sola goccia  di sangue.   

La porta si aprì ed il maresciallo si  diresse  verso  l' uomo‚ che sbarrò gli occhi nell'ansia  di parlargli. La  mano destra di don Filippo gli artigliò il braccio  ed  egli si chinò per ascoltarlo. Non vi fu bisogno  di  domande‚  il "caporale” raccolse la poche forza  che  gli restavano e disse‚ piuttosto chiaramente:

- M'hann'accise! Tutt'è ttre m'hanno sparate!-

- Chi?- chiese il maresciallo;

- Felice Marra, Gaetano Galdi e Giovanni Falcone. . . -

 Con  l' ultimo cognome‚ il corpo giacque e  gli  occhi   rimasero  sbarrati‚  come  in una eterna denuncia‚ mentre la  mano si bloccò  intorno al  braccio del

militare‚ che si liberò dalla  presa‚ aprendo‚ una ad una‚ le dita rigide di  morte.

Entrò  il dottore ed abbassò la palpebre  di  quel cadavere martoriato.

      Il  cane ululò tre volte‚ sull'aia  illuminata dalla  luna.  Angelina‚ chiusa nel suo dolore‚ non piangeva‚ né urlava‚come è  consuetudine della donne meridio-nali‚ ma rimase immobile presso del suo  uomo‚ provando per lui una pena immensa. Quella  era  la vendetta della "piana".  Nel  frattempo sopraggiunsero alcuna  donne  e‚ dopo  numerosi  a doverosi commenti‚ si  diedero  da  fare nel preparare la salma per la veglia funebre.

     In un 'altra zona del paese‚ intanto‚ qualcun  altro‚ dimentico dei fatti della giornata‚  coglieva  quei  frutti che allietano la vita a la  giovinezza‚ rendendole più belle. Il bacio di Mariuccia era stato dolcissimo‚Giuvanniello ne conservava

ancora il calore. Con le mani in tasca‚ il sorriso dei diciotto anni ed il capo che ondeggiava‚ seguendo il  ritmo dei  passi‚ il giovine ritornava verso casa.

     La luna gli illuminava la strada ed il profumo della campagna gli entrava nei polmoni‚che respiravano soddisfatti. Era contento‚ né l'episodio del pomeriggio

 lo aveva eccessivamente turbato. Prese a calci un sasso‚ che  rotolò sulla strada

 polverosa‚ fermandosi più  il  là‚ nel buio della carrara‚ che portava alla fattoria  di compare Albino‚ il cacciatore.

    Giunse nei pressi di casa sua ma nessun chiarore  veniva dalle imposte chiuse. ­ Sono andati a letto‚ ­ pensò tra sé‚  rallentando  il passo. Entrò in casa adagio‚ senza far rumore e‚ nel chiudere  la  porta‚ trattenne il saliscendi‚ per lasciarlo cadere lentamente. Accese il lume‚ ancora caldo‚ e sbirciò sulla tavola,  aspettandosi di trovare la cena. Non c'era nulla. Si meravigliò‚ ma sedette  ugualmente‚ per richiamare alla  mente  gli  avvenimenti  della giornata. Ad un tratto‚ una  voce inconsueta risuonò nella stanza‚ alle sue spalle:

- Giuvanniè sei in arresto! -

Il  giovane impallidì‚ cercando di  rendersi  conto della  situazione. Ora udiva il pianto della madre‚ mentre il padre‚ alle spalle del maresciallo‚ aveva una espressione che  non  gli  aveva  mai visto. Non   disse  una  parola‚  quando le  manette gli stritolarono i polsi. Guardava muto i suoi genitori‚  fissando a lungo le lacrime sul volto della madre.

- Marescià n'àggio fatto niente! -

-Cammina guagliò‚ cà pò se vede –

Si allontanarono tra i singhiozzi della  donna  sull'aia‚  mentre la luna disegnava lunghi fantasmi tra la casa a gli alberi‚ muti spettatori di quella  tragedia. E tutto tacque‚ i grilli ripresero il concerto‚ tra la fronde immobili.

      Nelle prime ore del mattino‚ anche Felice venne arrestato e‚ nei  pressi  del  pozzo‚ si  fermò  per guardare la madre un'ultima volta. I  carabinieri  lo spinsero in avanti con una sorta di delicatezza e di rispetto: avevano compreso che quello era l'epilogo di un dramma iniziato qualche tempo prima‚ in un pomeriggio di sole a di miseria. Il giovane si  allontanò  a   testa  alta‚ salutando  i suoi campi‚ la casa di sui padre  e  la  mamma‚ vestita di nero‚ che  non  avrebbe più  rivisto. Era  già lontano‚ quando sentì  abbaiare  alle sue  spalle.

     Si fermò e fissò a lungo il  fedele compagno di tanti giorni di caccia‚ quando l'alba colorava  i  cespugli  e la collina  si apriva  al  canto  degli  uccelli ed al volo dei merli‚ che planavano giù a valle sulle piante di fichi. La  bestia scodinzolò‚ annusandolo e leccandogli le mani ammanettate‚ poi tornò indietro‚ verso il fantasma  di  una  donna  che‚ molto presto‚ non avrebbe più  dato  da  mangiare alla galline.

    Gaetano stava "curando” i conigli dietro la  stalla‚ quando  il  fratellino Carminuccio lo  raggiunse  di corsa:

- Ci soni due carabinieri che vogliono  parlarti - gli disse tutti d'un fiato.

 Forse  dovrò  partire militare  commentò  il  giovane‚ senza  tradire  alcuna emozione. Girò intorno alla casa‚ mentre il padre invalido‚ seduto sulla  sedia‚ guardava i due figli più piccoli  che  giocavano sull'aia. Una donna anziana‚ la madre di Gaetano  s'asciugava le mani con un lembo del grosso grem-biule che  aveva davanti. I  due carabinieri‚ sotto il pergolato‚ aspettavano pazienti  né  si mossero‚ quando il  giovane  venne  verso di loro con un'aria strana‚ tra il rispetto  e la paura. Uno dei due‚ quelli più alto‚che s'asciugava i baffi con un fazzoletti colorato‚ dal grosso  orlo ribattuto a mano‚  gli chiese:

- Sei tu Gaetano Galdi? -

-­ Per servirvi! - ­ rispose il giovane‚ con un filo di  voce che quasi gli moriva in gola‚intanto‚ l'altro carabiniere gli  si  portava alla spalle‚ dicendogli:

- Sei in arresto! -

I  bambini  smisero di giocare‚ un  urlo  di  dolore giunse dalla  porta socchiusa‚

il  povero  vecchio  padre   protese   la  braccia  verso   la   finestra  spalancata‚ mentre la labbra gli tremavano sotto  la  barba incolta. Mamma Filomena strinse il  grembiule‚ maleodorante di  aglio e di miseria‚ tra  la  mani  ossuta ed il viso.

I  tre  s'allontanarono‚  seguiti‚  a  distanza‚ da  Carminuccio  che‚ scalzo‚ li guardava  in  silenzio‚col viso rigato di lacrime e la mani ficcate  nelle  grosse tasche del pantaloncino sfilacciato‚ lacero e non adatto alla sua età.

- Gaetà! -

- Vatténne a casa e pensa a papà! -

- Gaetà! -

- Vatténne guagliò e fatte omme  ambrèsse! -

Il ragazzino‚come se in quell’istante avesse compreso la gravità dell’evento‚si fermò:

- Gaetà; nce pense  ìe! - 

     S'allontanaro‚ mentre Carminuccio tornò indietro‚ a testa bassa‚ nettandosi il

naso  sul dorso della mano, sporca di terra. 

 

Parte terza

  La  piana era in subbuglio. Da  Battipaglia  ad  Ogliastro non si parlava d'altro che dell' "atto di  giustizia” compiuto in difesa dell'onore e dell'onestà. La notizia dell'arresto si diffuse con una rapidità incredibile‚ per quei tempi‚ tanto che nella “ taverna”  i  carrettieri   del  nocerino commentavano il fatto‚ tra una zuppa di soffritto ed una porzione di baccalà “arrecanato”. 

     I caporali covavano un odio impotente‚ ma nei loro atteggiamenti bruschi‚ traspariva una sorta  di  un  "rispetto”‚ per i lavoratori della terra‚ mai provato prima. 

Razza di vipere! Rinvigorivano  le loro file  macinando vite  ed ingrassando con il  lavoro  delle raccoglitrici di fragole‚ di carciofi e di pomodori. Procuratori senza scrupoli‚ se   ne infischiavano della  istituzioni  e  della  morale‚ pescando nel torbido di una politica  irresponsabile ed  avvantaggiandosi  del  fallimento  di quella agraria. 

       Nel carcere di Salerno‚ i tre attendevano di  essere  giudicati  a l'attesa‚ nella celle‚ aveva un  sapore  di angoscia : chi li avrebbe difesi? Carminuccio  intanto manteneva la promessa fatta al fratello Gaetano e  "crebbe”  all'istante‚ dimenticandosi persino di giocare a "spaccastrummolo”(3).  Accudiva gli animali e lavava la gamba morta del padre‚ con una rassegnazione che lo rendeva più  grande di quel che era. Le donne  nella "piana”  non  cantavano  più‚ lavoravano  in  gruppo‚  senza  allontanarsi l'una  dall'altra. E venne il tempo della vendemmia. Anche  Nunziatina‚ se non fosse morta‚ avrebbe colto i grappoli maturi‚ per il vino dei Casati. 

       Gli  altri anni‚ quelli era stati  giorni  di  festa‚ ma quell'anno perfino l'uva faceva resistenza  alla  dita  delle raccoglitrici. La  moglie  di  don  Filippo  lavorava  ora con le altre‚ ma nessuno le rivolgeva la parola. Con i capelli raccolti in  una  lunga  traccia‚ arrotolata dietro il  capo‚  evitava  che  il suo guardo ne incrociasse un altro ma‚ quando  era  sicura  di  non  essere   scorta‚  "guardava  storto” e coglieva pure l'uva “puttanella"(4). La veste nera‚ unta e grigiastra per lo sporco‚  per  nulla  addolciva  la  linea  pesante del corpo,  piuttosto massiccio.  I peli sul grossi cece‚ al lato sinistro del naso‚ erano  più irti del solito‚ tanto da darle un'aria tra il coniglio ed il topo. 

     L'atmosfera nella piana stava cambiando‚ mentre un  vago senso di dignità si faceva  strada  negli animi‚ troppi assuefatti a servire. 

     Mariuccia si era rinchiusa in sé‚ ricordando i  momenti belli in compagnia del suo fidanzato": quanta  nostalgia  e  quanta  angoscia.  Quell' ultima  sera‚ Giuvanniello  era  stato  particolarmente caldo‚ l'aveva baciata  con  un desiderio struggente‚ carezzandole  le  guance e la schiena  delicata.  La  ragazza  aveva sentito il sesso di lui premerle  sul  ventre ed aveva desiderato ardentemente che,  libero  dalla prigione‚  le avesse carezzato la parte alta della cosce. Per la verità il giovane  cercò  di  forzare  la resistenza dell'innamorata, ma fu lei a dirigere altrove il sesso caldo dell' uomo, con mille proteste tra le labbra umide di piacere represso : 

- ­No, nnu' voglio! -

-­ Ma ... ­ - cercò di convincerla Giuvanniello. La giovane fu irremovibile, poi, baciandolo  con  le labbra calde,  cercò di svuotare l'oggetto del  desiderio, con mille movimenti della mano inesperta. Forse avvertendo inconsciamente il dramma  dei  prossimi giorni‚ il giovane desiderò amarla di più  e sbottonandole la camicetta,  liberò  le  mammelle dai  piccoli  capezzoli  scuri : gemiti  di  piacere tra momenti di  smarrimento.  La  mano, lasciata la pelle eburnea del seno, si infilò sotto la gonna larga‚ carezzando le cosce di fuoco e, quando rag-giunse  l’ incavo dolce ed irrequieto, Mariuccia  si  sentì svenire, cedendo appena sulle gambe tremanti. Un unico sussulto li avvinse, mentre le loro lingue s'incrociarono, per sublimare quell'attimo. Anche Giuvanniello ricordava quei momenti dolcissimi‚ fissando la tenue  luce  che filtrava dalla piccola finestra della cella. Tra qualche  qualche  giorno  ci sarebbe stato il processo e sperava in una  pena  mite‚ non avendo preso parte al  delitto.

       Felice non sperava più in nulla‚ chiuso in sé stesso‚ era  sempre più convinto  che   "l'atto di giustizia” andava  fatto. Gaetano  pensava  ai suoi vecchi‚ al  fratello Carminuccio e sperava che il ragazzo fosse cresciuto in fretta‚ tanto più che aveva la strana  sensazione‚ che  non  avrebbe rivisto più la sua casa. 

       Era il 15 marzo del 1908¸ quando il giudizio iniziò nel  Tribunale i Salerno e gli imputati ebbero una difesa d'ufficio. Dopo giorni di interrogatori‚ di arringhe e  di false  speranze‚ fu pronunciata la  sentenza‚ dura e spietata : ergastolo. 

      Era  il tempo in cui in Italia  del nord iniziava la lotta sindacale del  mondo operaio  e  contadino; al ponte di Berra  i  soldati  sparavano contro i lavoratori della terra‚ mentre il  sud  lottava  con  la  fame a  la  miseria. Era  quest' ultima  che  armava  il  coraggio dei  nostri emigranti. Quelli che rimanevano, venivano  tenuti nell’ignoranza e nella superstizione‚ alimentata da visioni apocalittiche,   di retaggio feudale.

      In questi clima sociale si trovarono a  vivere   i nostri   protagonisti;  ecco perchè vendicarono l'unico affronto, che  mai  avrebbero potuto sopportare. 

     Giuvanniello‚ alla Gorgona di Livorno‚ rigirava, tra  le mani sudate,  l'ultima  lettera  di  Mariuccia‚ trattenendo a stento le  lacrime‚ con  l'angoscia  che  ti rode  nelle situazioni di  impotenza. 

     La  ragazza  prometteva  di  attenderlo  a  gli  giurava  quell'amore  che  tutte  le  innamorate‚  a  diciotto anni‚  giurano al loro fidanzato. Le  parole  di  Mariuccia erano sincere‚ accorate  e  mostravano  tutto il dolore di chi viene privato dell'unico bene che  dà  uno  scopo alla vita.  Fu  allora  che  il  giovane  capì  di dover chiudere  per  sempre  quel  capitolo della sua vita. Scrisse alla fanciulla‚ che la  liberava  da ogni impegno e che‚ se  gli  voleva  bene‚  doveva  pensare  a sposarsi con chi  avrebbe potuto ridarle il sorriso e quei figli che avrebbero  allietato la sua casa di donna e di sposa felice. 

     I  giorni  trascorrevano lenti nella  piana a  Mariuccia  aspettava con ansia la risposta alla sua ultima lettera. Finalmente‚ quel lunedì mattina‚ sentì  il  fischio del postino e si precipitò sull'aia. Corsa  verso il calesse‚ asciugandosi sul grembiule la mani bagnata di bucato. Prese la lettera e corse verso la  campagna‚  seguita  dagli sguardi  pensierosi  della madre. Si addentrò nel vialetto‚ tra la vigna ed  i  salici‚  sedendo‚ affannata sull'erba. Per un  lungo  istante‚  il  cuore  smise di battere  a  gli  occhi fissarono  lucidi quello scrigno di speranze‚  prima  che  lo  aprisse  con la mani  tremanti  e  nervose. Estrasse il foglio lentamente‚ poi‚ d'un tratto‚  lo  aprì   a  lesse.  Le  lacrime  di Mariuccia scesero copiose, fino al cuore. Riattraversò‚ di corsa‚ la campagna‚ coprendo in  breve  tempo  di  spazio  dal  vigneto  alla   casa;  sull'aia‚ le galline lasciarono i chicchi di grano e  scapparono dividendosi in due gruppi disordinati. 

    Nella  penombra  della  camera  da  letto‚ il  materasso di spoglie accolse i penosi  singhiozzi della giovane‚ con  un brusio di  foglie  secche.  Alla  spalle‚ un'ombra osservava in silenzio: era Assunta che assisteva alla disperazione della figlia‚ anche  a lei  sarebbe  piaciuto  che  Giuvanniello   fosse  entrato  in  casa  sua‚ quella  casa  che‚  da  tempo‚  mancava di un uomo‚ dopo la morte del marito Nunzio.  La donna prese la lettera sgualcita dalla  mani  della  figlia  a lesse faticosamente tra  la  righe‚ comprendendo più per intuito‚ che per espe-rienza  di  lettura.  Sedette sul bordo del letto accarezzò  il  capo  della  sua  creatura‚ come  faceva  un  tempo.  Stettero a lungo l'una vicino all'altra‚ senza  dire  una parola. Di fronte al letto‚ una specie di armadio senza specchi  custodiva il misero corredo di  Mariuccia‚  mentre‚ sul vecchio comò‚ la fotografia di compare  Nunzio troneggiava al centro delle altre  fotografie  di defunti‚ messe lì come lari protettori. La giornata  si spense lentamente  e  la  notte  sopraggiunse  sulla casa‚ sugli animali e  sui  sogni  della ragazza. 

     Gaetano‚  a  Portolongone‚ iniziò la sua  vita  di recluso‚ spegnendosi giorno dopo giorno‚ con  gli occhi fissi sulla piccola finestra della cella umida  ed angusta. Per circa cinque anni‚ visse nell'attesa della lettera che gli inviava Carminuccio‚ ma quando  apprese  della morte del padre prima e  della  madre  poi‚  si lasciò andare. Morì il 20  febbraio  del  1913‚ all'alba del primo conflitto mondiale.

      Era il periodo della guerra balcanica e di mille  illusioni  di conquista. La pace di Losanna dava all'Italia il possesso della Libia‚ la cui conquista fu  possibile solamente molti anni dopo. Il  nazionalismo  si  andava  affermando   come  movimento letterario e politico‚ Gabriele D'Annunzio inneggiava alla forza a al dinamismo. Quanto  ai socialisti‚ la guerra  libica  aveva  riportato  in  auge  la  corrente  massimalista  e rafforzata quella  rivoluzionaria‚ ove militava  Benito Mussolini  che‚ insieme all' allora  repubblicano  Pietro Nenni‚ aveva  organizzato  manifestazioni di protesta‚ violentissime‚ a Forlì. Ad Ancona‚  la  polizia  sparava  su  di una  manifestazione socialista‚ ammazzando tre dimo-stranti;  lo  sciopero era proclamato  in  tutta Italia ed il paese veniva scosso da violenze ed atti  di teppismo. La settimana rossa rappresentava l'epicentro di  tutta  una  serie di sommosse nella  Marche  ed  in  Romagna‚ nonché l'inizio della crisi profonda  del  movimenti operaio italiano. IL  Sud era pressoché assente‚  come  assente  era  qualunque  tentativo di  riforma  agraria‚ dal  momento   che  la  legalità  era  nella  mani  dei latifondisti a della piccola borghesia. I  caporali  fissavano  le  condizioni  con   i  padroni e ciò significava miseria‚ per i lavoratori della terra, quella che impediva  la  loro  emancipazione  e favoriva l'emarginazione del sud. Nel  1906   la   Società  Umanitaria‚  in  concomitanza con la Federterra, riusciva a fare i primi passi contro il caporalato

 e la disoccupazione‚ portando l'assise del  primo  congresso  internazionale  a  votare  per  la  istituzione   degli  uffici  interregionali  di  collocamento.  Ma  gli  imprenditori  padani ed i caporali del sud‚  vinsero  la  battaglia‚  perchè appoggiati  dalle  forze  patronali e dallo stesso stato. Invano  il  Giolitti ‚ allora  Presidente del  Consiglio‚   appoggiò  il  disegno  di  legge,   che  prevedeva la fine della mafia d'ingaggio. Era anni difficili. Sembrava‚ infatti‚ che il mondo fosse sopra una grossa polveriera e Prencip‚ lo slavo irredentista‚ ne  accese  la  miccia  che incendiò‚ in  breve  tempo‚  il  furore degli uomini.

       L'Italia‚  incerta a dubbiosa‚ cercava una  sua  linea  di  condotta‚ sballottata‚  come  sempre‚  da  molteplici forza politiche; finché non vinsero  gli  interventisti  a fu la guerra. Era il 24 maggio  del  1915. Povera  Italia! Mal governata e  sedotta‚ come  una  bella donna‚ dal gioco di forze più grandi  di  lei. 

     Il 6 aprile del 1917‚ gli Stati Uniti entravano  in guerra e Wilson presentava l'intervento come  una lotta  per  la  democrazia‚ per la  libertà  a  per un'egemonia universale del diritto. Sul fronte occidentale‚ seguì la famosa ritirata di Caporetto. 

     Ardengo Soffici assisté  alla sconfitta  della  seconda  armata‚ alla  quale   apparteneva come  ufficiale. Gli  italiani ebbero 400mila  morti  e feriti‚  mentre  i  socialisti‚  con  i cattolici‚ continuavano la loro propaganda pacifista. Nel gennaio del 1919‚ dopo l’offensiva vittoriosa del Diaz‚  si  apriva  a  Parigi   la  conferenza della pace. 

      Sia Giuvanniello che Felice‚ nella loro  celle‚ non  seppero  che  poche notizie  di  questi  eventi storici. I giorni passavano lentamente e gli anni  era  secoli.  La vita del carcera era dura ed i  problemi  più semplici si ingigantivano fino ad  assumere  proporzioni assurde. Il sesso diveniva  il  pensieri  dominante  e generava manifestazioni innaturali che rendevano la fantasia fervida di espedienti. Nella lunga  attesa  di niente‚ la dita veloci impastavano la mollica del  pane‚  che‚ lentamente‚ assumeva la forma del  sesso  femminile: la  massa  molle riproduceva le grandi labbra‚ dove il sesso turgido andava ad infilarsi nelle lunghe notti insonni. Anche Giuvanniello‚ dopo mesi  di  astinenza‚ volle  illudersi  di essere con la sua  donna.

 

Parte quarta

        Mariuccia  attese‚  per sette lunghi  anni‚  il  ritorno di Giuvanniello‚ poi‚ la lettera del giovane  e  la  convinzione  che la  domanda di  grazia non sarebbe mai stata  accettata‚ maturarono nella  donna la  decisione  di fidanzarsi con un  bravo giovane‚ Pasqualino  quello  stesso che  aveva  raccolto  il  corpo morente di don Filippo ò capuràle. 

     Nel maggio  del 1914‚ i due  si  sposarono ed andarono a vivere nella casetta della madre di  lei. Mamma  Assunta era morta l'anni prima‚ con una  gran pena  nel cuore‚ e fu in quella casa che i due sposini iniziarono la loro vita di sacrifici. 

     Quando Giuvanniello seppe‚ tramite Carminuccio‚ del matrimonio della sua fidanzata‚  tra le lacrime‚  approvò  quella  decisione. Quell'evento causò nel giovane un atteggiamento nuovo‚  infatti  decise  di apprendere un lavoro che gli  permettesse  di sopravvivere. Iniziò a frequentare la grossa  falegnameria   del penitenziario‚ specializzandosi  in ebanisteria. Apprese quest'arte  sotto la guida di un altro detenuto‚ un vecchio catanese che gli fece da maestro. 

    Carminuccio‚ nel frattempo‚ era cresciuto ed ora  aveva  quasi  vent'anni. Alto‚ agile  e  sicuro  di  sé‚ parlava  del fratello Gaetano come di un  eroe‚ che  aveva sistemato le cose della piana. Effettivamente la situazione era di  molto migliorata; non che fossa finita la miseria‚ ma almeno i caporali l’avevano smesso con lo strozzinaggio ed  i ricatti. 

     Intanto‚ il dopoguerra preparava nuove pagine di storia. Il partito socialista si dilaniava nelle lotte  interne‚  mentre  un  certo  movimento  nasceva  con  carattere di elìte: Benito Mussolini dava  l'avvento  al  fascismo. 

            Era  il 1919. Nel settembre del 1920‚ operai  e  sindacalisti  socialisti  occuparono  le  fabbriche‚  chiedendo  il  rinvio  del  contratto  ed   aumenti  salariali‚  ma  i risultati  furono  deludenti.  Nel  gennaio del 1921‚ a Livorno‚ la corrente che  faceva  capo  a  Gramsci  decisa di  staccarsi  dal  partito  socialista  e fondare un nuovo partito :  il  partito comunista  Italia.  Mentre nel nord il  contadino  cessava  di  essere un salariato  e  diveniva  socio d'azienda‚  nel Mezzogiorno‚ dove il  latifondo  era  ancora  radicato‚  non si verificò  alcuna  riforma  agraria‚   soffocando  il  grido ­-  La   terra   ai  contadini!- ­ e deludendo la speranza delle masse. 

         Gli eventi precipitarono‚  le  squadre  fasciste  aumentarono   la  loro  forza  e‚  col   beneplaciti dell'esercito   e   della   polizia‚   organizzarono  spedizioni punitive. Il  24  ottobre del 1922‚  le  forze  fasciste‚  concentrate a Napoli‚ iniziarono la marcia su  Roma‚  ove  entrarono il 28 ottobre. Quattro  giorni  dopo‚  Mussolini ebbe dal Re l'incarico di formare il nuovo governo.  Seguirono  le  elezioni   che   determinarono la  maggioranza parlamentare del fascismo e  l'assassinio  di Matteotti. 

       Il 31 ottobre del 1926‚ Zaniboni attentava alla  vita  di Mussolini che‚ nel novembre  dello  stesso  anno‚ deliberava lo scioglimento di tutti i  partiti e l'istituzione del Tribunale speciale per la difesa  dello Stato. 

Dal  29 al 36‚ il regime conobbe i suoi  anni  migliori; in questo periodo sorse il mito del  Duce‚  sotto  l'azione  della propaganda  per  l'incremento  demografico‚   della  politica  agraria  a  con   la battaglia del grano. Era  il  tempo  in  cui  l'Italia  si sentiva  realmente  fascista‚  né  si  sognava tanti  anti-fascisti‚  quanti  sostengono  oggi  di  esserlo  stato.  Era tempi brutti che dove-vano  servire  da  insegnamento‚ non da spauracchio di comodo. 

     Il  5 maggio del 1936, si concludeva  l'impresa  Etiopica,   con  l'occupa-zione  di  Addis  Abeba  e Vittorio Emanuele II diveniva imperatore.

     Il 15 maggio, Giovanni Falcone veniva messo  in  libertà dopo 2 anni di reclusione. Alla stazione di Napoli, incominciò a respirare l'aria della  sua  terra.

 Nell'animo, i sentimenti più contrastanti si alternavano ad una gioia immensa. Il treno si  mosse  a  l'ansia  crebbe  con la  stessa  velocità  della campagna che gli veniva incontro. 

     La piccola stazione  di  Capaccio Scalo  era  gremita: Carminuccio, vestito a festa, andava su e giù, sorridendo a tutti coloro che  si  rallegrava per l'arrivo del compaesano Era  come  se  aspettasse il fratello, quello che  aveva  perso  nel carcere di  Portolongone. Pochi erano rimasti della vecchia guardia, ma tutti sapevano del fatto accaduto  ventotto  anni prima. 

     Compare Albino era stato tra i primi a  recarsi alla stazione‚ partendo di buon mattino col suo abito buono ed il mezzo sigaro in bocca. C'era  pure Micheluccio‚  l'ex   tirapiedi  di don Filippo. Finalmente‚  il fischio del treno ruppe  l'ansia  di tutti  e la  piccola folla  si  accalcò nei  pressi  dei binari. 

­- Eccolo‚ eccolo! ­- qualcuno gridò‚ ma il treno era  ancora  distante  e si scorgeva solo la  testa del macchinista‚ che guardava preoccupato la folla. Il  treno sbuffò‚ rallentò‚ si fermò con  un lungo sibilo. La folla assaltò i primi due  vagoni,  qualcuno gridò in corrispondenza dei finestrini : ­

- Giuvanniè‚ Giuvanniè! -

Per cinque lunghi minuti nessuno scese‚ nessuno si mostrò.La piccola folla ondeggiò‚ mentre il  mormorio  si fece sempre più forte. Qualcuno chiese :

- ­ Carninuccio‚ si sicuro ch'è  chìsto o treno?  -

Il  giovane non rispose a si spostò  lungo  i  Vagoni‚  verso  destra.  Nel  quarto‚  lo sportelli si aprì. Carminuccio accorse‚ si fermò e guardò  nel  vano: Giuvanniello era  là‚  con  due  valige in mano ed il volto rigato di lacrime.  Un  modesto  vestito blu‚  a  righe   bianche delineava  il corpo ancora snello, ma come era  diverso al giovane che era partito tanti anni prima. I capelli  brizzolati con due  grosse  ciocche bianche  alla tempie‚ mettevano in risalto le  rughe  del viso scavato dalla sofferenza. Scese  due  gradini  del  treno  e  si  fermò lasciando cadere la valigie. Si  strinsero in un  abbraccio  senza  parole, mentre il treno ripartiva con un lungo fischio.  La  folla  attese‚ pazientemente‚ che  si  salutassero‚ poi‚ con grida festose‚ corse  verso  di  loro, con una generosità che è tipica dei meridionali : 

­- Giuvanniè‚ salute! -

­- Ben tornato Giuvanniè! -. 

     L'uomo si fece largo ringraziando e si  diresse  verso  l'uscita‚ dove compare Albino  aspettava. Il  vecchio lo guardò‚ con le mani che gli tremavano ed  una lacrima‚che subito asciugò  con l'indice destro.

 ­- Giuvanniè!..-­ mormorò, con un filo di voce, che era un  singhiozzo.

L'uomo abbracciò quel povero vecchio ed insieme uscirono fuori sulla strada‚ dove Carminuccio attendeva con il calesse‚ già carico delle due valigie. Salirono e si allontanarono‚salutati calorosamente dalla folla. Nessuno dei tre parlò‚ nel lungo tragitto verso casa. Il  mattino  era  pieno di sole  e  gli  alberi  ombreggiavano  silenziosi e tranquilli.

        Per  qualche  chilometro‚ la strada continuò diritta a polverosa‚  poi‚ uscirono  all'aperto‚ tra due ali immense di campi‚ con lunghi filari di  salici all'orizzonte. Una leggera brezza‚ da sinistra‚ portava il profumo  del mare. Giuvanniello chiuse gli occhi a respirò a pieni  polmoni  l'aria  della  "piana".  Una  grossa mandria  di  bufali si godeva il  sole‚ nell'ultimo  tratto della  terra dei Casati‚ quando  il  calesse  rallentò.  Giuvanniello fissò Carminuccio‚ quasi  a  chiedergli il perché‚ il giovane guardava verso una  piccola  fattoria‚ con l'entrata  rivolta  verso  il  mare  ed un vialetto‚ costeggiato da gerani a rose‚ che immetteva sulla strada. Una donna‚non più giovane guardava verso di  loro‚  si  alzò‚ fece un passo avanti e  si  fermò incerta. Giuvanniello si accorse di lei e la  fissò  finché  il calesse non si fermò  completamente‚  a  pochi  passi  da lei. Il volto stanco  mostrava le  rughe  del tempo‚ gli occhi tristi avevano qualcosa  di familiare: 

­- Giuvanniè! -  I singhiozzi della donna erano penosi‚ ma li soffocò  in un grosso fazzoletto colorato. L'uomo si sentì turbato e‚ reggendosi sul ginocchio del giovane amico‚ scese dal calesse:

­- Mariu'! –

Si abbracciarono. Dov'era finita la sua meravigliosa freschezza! In quell' ab-braccio vi era il dolore di trent'anni. Giuvanniello  l'allontanò con garbo e guardò con tristezza la casa solitaria‚ desolata‚come la povera donna‚ vestita di nero‚ che gli stava di fronte. 

­- E tuo marito?  -

-­ È  morto l'altr’anno –

­- Come è andata l'annata scorsa  -

­- Quest'anno andrà meglio -­ gli rispose‚alzando le spalle con una rassegnazione,

  che Giuvanniello non ricordava. 

-Vienimi a trovare‚ quando avrai un poco di tempo -

­- Verrò! -­ rispose l'uomo‚ guardandola allontanarsi per lo stretto viale‚ verso la casa grigia. Risalì sul calesse‚ che riprese la sua corsa  verso  "femmena morta". 

     Le prime case gli venivano incontro‚ con quell' aria tra il triste ed il dormiente‚ mentre i raggi  del  sole‚ mettevano in risalto il giallo delle  facciate‚  sotto gli spioventi di tegole cotte. Non  era  poi  cambiato  molto  il  suo  paese‚ pensava Giuvanniello ed aveva la piacevole sensazione di non essersi mai  allontanato dalla  sua  terra. Ed i caporali ?   Quelli  avevano  finito  di stuprare e  schiavizzare‚  ma  c'erano  ancora  e  ci  sarebbero sempre  stati‚  finché ci sarebbero stati  loro :  i  padroni  e la povera gente‚ quella che non ha  altro che due braccia per lavorare‚ con la schiena ricurva e  le  mani deturpate dai calli‚ con le  macchie delle piante ruvide dei carciofini. 

     I caporali‚ razza dura a morire‚ indistruttibili come la gramigna‚che spunta ovunque e non si distrugge mai. Cambiano i tempi a cambia il loro approccio con  il mondi del lavoro‚ ma in sostanza il risultati  è  il medesimo :  lo sfruttamento  delle  masse‚ un dissanguamento costante‚ parassitario‚ volto  alla speculazione. Forse‚ anche  essi servono‚   come  servono  gli ignoranti e gli sciacalli‚  servono  al  gioco  dei   potenti   per   creare   nuove  forme  capitalistiche poggiate sull'illegalità.

       Felice‚  scarcerato‚  un  anno  prima  non  era  andato alla staziona per ricevere l'amico. Forse per  un sensi di colpa verso il fratello di sventura‚ che  aveva pagati per il suo delitto. I  due  si  incontrarono due  giorni  dopo‚  in  quella stessa campagna che era stato il teatro della  loro impresa. 

-­ Siamo dei sopravvissuti -­ iniziò Felice‚ parlando a  testa  bassa  e con le mani in  tasca‚  come  per prendere coraggio. 

­- Quel che abbiamo fatto‚ andava fatto! E’ la  legge della  vita!- ­ aggiunse  Giuvanniello‚  appoggiandosi  sulla  gamba buona‚ quella che non aveva  subito  le  conseguenze dell'anello della prigione. Il discorso andò avanti per un bel pezzo e si  concluse con un abbraccio e qualche lacrima amara. 

       Il  sole  tramontava all'orizzonte e  la  piana  andava  riempiendosi della voci della sera‚ del  fumo dei focolari a del latrati dei cani sulla aie. Nulla  era cambiato e la nuova generazione era forse più vivace‚ ma con lo stesso sguardo deciso‚ quello che scruta la terra‚ ma sa opporsi alle ingiustizie dei caporali. 

 

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(*) Al mio caro amico Franco Angrisano, il  celebre Padre Tobia della Rai degli anni 60 e validissimo attore della

        compagnia Di Eduardo De Filippo.

(1)   Carrara, carraia,strada per carretti.

(2)   Dobbiamo uccidere quella belva.

(3)   Spaccastrummolo:antico gioco campano, fatto con una trottolina di legno con punta metallica ed uno spago.

(4)   Uva puttanella: uva selvatica, piccola ed amara.

 

Franco Pastore

 

 

 

 

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