l'ira del sud (*)
Parte prima
Oltre le gole selvagge del monte Marzano, la valle del Sele si estende a Triangolo tra l'Alburno ed i monti Picentini. Tra i lembi estesi di terrazze fluviali‚ il Sele si allarga ad irrorare la pianura, un tempo inospitale e malarica. La nostra storia si svolge‚agli inizi del ventesimo secolo, in quella parte della valle chiamata "fémmena morta", in seguito al ritrovamento del cadavere di una donna che non fu mai identificata. A quel tempo, vaste masse di proletari, coloni e contadini,si addensavano là dove forma capitalistiche di conduzione si erano insediate in un contesto sociale dominato da “residui feudali” e dalla assoluta mancanza di una regolamentazione giuridica‚ che garantisse la tutela dei prestatori di opera,vittima dei caporali. Questi ultimi attuavano una vera mafia d'ingaggio, impedendo il contatto diretto tra padroni e lavoratori ed avvantaggiandosi, indebitamente, sul compenso del lavoro. Nel contempo, taglieggiavano le loro vittime, pretendendo utili per l’arruolamento. Su di un guadagno complessivo di venticinque lire, essi truffavano sino a sei lire, continuando l'opera con atti di strozzinaggio ed imponendo prestiti iniziali a tassi impossibili. Altri ancora‚ contro ogni legge morale, pretendevano che le donne alzassero le gonne e soggiacessero alla loro voglie. Don Filippo Capo apparteneva a questi ultimi‚ e non perdeva nessuna occasione per trarre benefici economici e sessuali‚ in tutta la pianura.
I Farnesi ed i Casati era i più grossi latifondisti della valle ed egli era procuratore di entrambe la famiglie. Senza figli, aveva per moglie un curioso animale, che somigliava ad una donna per via di due grosse protuberanze, che le gonfiavano la veste nella parte alta del corpo. Angelina, così si chia-mava, spettegolava su tutti‚ compiacendosi del lavoro del marito e del timore che incuteva negli altri. Basso, tarchiato, con la barba rada, che si concentrava nella parte alta delle guance‚ portava a spasso un naso piuttosto grosso e sgraziato, sotto due occhi porcini. La pelle olivastra‚sudaticcia e maleodorante, si accompagnava ad una voce roca, bassa a volgare. Un ciuffo di capelli, lisci, unti e neri come il carbone, gli cadeva sulla fronte, segnata da una brutta cicatrice. Uomo di fiducia, don Filippo percorreva la lunga "carrara" (1), sul leggero calesse, tirato da "Diavolo", un cavallo snello a nervoso, e sorvegliava i lavoranti, da un capo all'altro del territorio, compiendo‚ ogni giorno‚ un lungo
giro per Pagliarone e la zona collinosa a valle di Capaccio. Al suo passaggio,le donne si facevano il segno della croce, mentre gli uomini, fingendo di ignorarlo‚ stringevano i denti e sbiancavano le nocche sull’asta delle zappe dalle lame lucenti.
Erano circa la tredici, quando arrivò nella zona dei salici, che facevano da confine tra la terra buona ed il "deserto" : una lunga striscia di terra, oggi chiamata "Licinelle", bruciata dal sole a schiaffeggiata dal mare. Alcune donne si riparavano dal sole, sotto un grosso albero di gelsi rossi, tra esse vi era Nunziatina, una giovanetta di una bellezza esuberante: sedici anni‚ forse diciassette‚ con un casco di capelli neri‚ come i suoi occhi irrequieti‚ ma limpidi come l’acqua d’una fonte. La camicia leggera aderiva alla pelle sudata, mostrando l'abbondanza dei seni turgidi, sul ventre piatto. Una gonna a campana, che la leggera brezza incollava all'inguine, alle cosce ben fatte, metteva in risalto la figura agile a slanciata della giovane.Le donne si segnarono,
la fanciulla scappò, scomparendo tra i cespugli ed i fichi d'India. Don Filippo spronò il cavallo e la seguì. Sudava, il fazzoletto, intorno al collo taurino, era bagnato e la camicia, aperta sul davanti, lasciava intravedere rivoli di sudore,
tra i peli del largo torace. Ad un tratto, la vide. S'arrampicava sui sassi che delimitavano la terra dei Casati. La raggiunse. La fanciulla si girò pronta-mente‚ come una tigre che si prepara all'assalto: con la fronte corrugata, sugli occhi duri, fronteggiò l'uomo che, sceso da cavallo, si avvicinava lentamente a
lei.
Con le spalle contro il muretto a secco‚ Nunziatina ansimava, cercando scampo con gli occhi. Le braccia tese artigliarono all'indietro due grosse sporgenze nel muro. Fece forza ed una di queste cedette. La fanciulla si sentì protetta. Lanciò la pietra ed il sangue sprizzò fuori velocemente dalla fronte dell'uomo che, con un urlo di rabbia, si lanciò in avanti, afferrandola nel punto in cui i due seni formano il lungo solco d'amore. Il tessuto cedette e la fanciulla coprì‚ con le mani‚ la pelle eburnea. Negli occhi dell’uomo una luce
torbida e cattiva. Intanto‚ l'altra mano artigliava le gonne che, strappate nella
parte alta, si raccolsero ai piedi della fanciulla nuda e tremante.
Uno stormo di uccelli volò via in direzione della piana‚ mentre l’eco di uno sparo si infranse sul fianco della collina‚ tra gli ulivi ricurvi.
Le mani dell'uomo era d'acciaio, un rivoli di saliva scendeva, dall'angolo delle labbra a fessura, sul mento sudato. La terra secca graffiò le spalle delicate di Nunziatina che, esausta, abbandonò ogni resistenza. L'immagine del cielo divenne nebulosa e scomparve, mentre il membro dell'uomo le straziavano il ventre.Gocce di sangue bagnarono la leggera peluria‚mentre, sui seni martoriati,
tracce di bava inumidivano i piccoli capezzoli rosei.
L'uomo si alzò, si chiuse i pantaloni‚ tolse con l'indice destro il sudore dalla fronte e sghignazzò:
- O lupe s’è futtùte ‘a pecurèlla ... ‘a notte nù durmìa pensànne a tè ! Ma‚ te lo giuro! (bacia le dita a croce e sputa a terra) Da oggi, ci sarà sempre lavoro per te a la tua famiglia -.
Salì a cavallo e scomparve. La fanciulla incominciò a riprendersi ed aprì lentamente gli occhi verso il cielo di un azzurro intenso. Un coro di cicale davano colore a quel maledetto pomeriggio. Nunziatina cercò di alzarsi, ma ricadde supina‚ con le mani sul ventre dolorante ed una sensazione di vomito l'assalì. Si girò di fianco a vomitò sulla terra bruciata. Si sentiva sporca insozzata ed aveva una gran voglia di morire. Si sentì chiamare, guardò giù verso il pendio e vide due donne, che venivano nella sua direzione. Non rispose. Raccolse accanto a lei quello che rimaneva dei suoi panni e cercò di coprirsi. La raggiunsero.
- Non vergognarti, figlia mia!-
- Dio lo punirà quel mascalzone! -.
Una della due, tolse dal capo il fazzoletto e cercò di pulirle le cosce, mentre l'altra le asciugava delicatamente i seni. Nunziatina singhiozzava. Dopo circa una mezza ora la fanciulla ripresasi alquanto, fu riaccompagnata a casa.
Verso la otto di sera Felice‚ il fratello della ragazza, rincasò.La pallida luce
del lume a petrolio rischiarava a mala pena l'ambiente‚ annerito dal fumo del
focolare. In un angolo, un piccolo mucchio di legna secca, attendeva di essere acceso per la cena. Sulla spalliera d’una sedia impagliata, un asciugamano
logoro gocciolava in una bacinella di acqua ed aceto. Felice entrò chiudendo la
porta con un calcio all'indietro. Il saliscendi scattò. Andò verso la finestra aperta e fischiò, poi chiamò, con voce secca, ma non fredda: - Baró -. Il cane guardò verso di lui e si avvicinò, scodinzolando. Il giovane tolse la camicia, e prese a
massaggiare, con la grossa mano, la braccia stanche. Di poi, chiamò:
- Mamma! -
- Nunziatina! -
Nessuno rispose. Bussò‚ poi spinse adagio la porta della camera da letto : la sorella giaceva in un bagno di sudore : il delirio alterava i lineamenti della giovane, che sembrava rivivere l'incubo di quel pomeriggio.
Una donna, sui cinquanta anni, alzò lo sguardo verso di lui:
-Figlio mio‚ disse con voce rotta dal pianto, il disonore a la morte sono entrati in questa casa ! -
Sul vecchio comò, un lume ardeva davanti al ritratto di un uomo, mentre, al lato destro della cornice, l'immagine della Madonna di Pompei formava un singolare altare di numi tutelari‚ che sintetizzava un unico grande rispetto per la morte e la fede. Felice strinse i pugni:
- Chi? - chiese, guardando con dolore la sorella;
- Chi è stato! - ripeté con voce alterata, stringendo i pugni ed imprecando tra
i denti.
La donna non rispose, abbassò lo sguardo verso il fazzoletto che aveva in grembo e strinse tra le dita i nodi del Rosario.
- Ma’, chi è stato ! - chiese ancora il giovane‚ provando una pena profonda per le lacrime della vecchia.
- Don Filipp'ò capurale...- rispose la donna, tutto d'un fiato, come se avesse voluto liberarsi di un grosso peso‚ ma perfettamente consapevole delle conse-guenze, che quella verità avrebbe avuto sul figlio Felice. Il giovane, uscì dalla stanza senza dire una parola‚ rimise la camicia, che aveva appena tolto e stava per varcare la soglia di casa‚ quando il grido disperato di sua madre‚ per un breve attimo, lo bloccò:
- Fìgliu mio, nunn'ascì, statte ccà cu' mamma toia!-
Felice, dopo un attimo di esitazione, sbatté la porta dietro di sé e si addentrò nella campagna. Rimasta sola, la povera donna si accasciò sulla sedia:
- Gesù e Maria, mò che succede? – quella accorata invocazione si trasformò in una preghiera che accompagnò il lento scorrere del rosario, tra le dita avvezze al duro lavoro dei campi.
Nell'altra stanza, Nunziatina, ripresasi, chiamò la madre; la donna accorse, mentre il cane lanciava lunghi ululati nella sera.
Felice‚ intanto‚ aveva raggiunto la casa del cugino Gaetano. Fischiò tre volte‚ dal lato della finestra sopra il pergolato e rimase in attesa.
Il cane, riconoscendolo, gli andò vicino, senza abbaiare, ma il giovane lo allontanò bruscamente:
- Va via‚ disse‚ la selvaggina di questa battuta va lasciata ai vermi! -.
Dieci minuti dopo‚Gaetano lo raggiunse. Si allontanarono, dirigendosi verso il
pozzo.
- Che succede, Felì ! – gli chiese il giovane‚ senza nascondere una certa apprensione.
- Succede che…-il giovane scoppiò in singhiozzi ed afferrando il cugino per le spalle aggiunse:
- 'Aimm'accìre chélla carogna! – (2)
- Chi?- chiedeva Gaetano, già in preda ad una agitazione profonda;
- Don Filippo 'ò capurale" ha sverginat'à Nunziatina, che sta murènne! -.
Gaeta portò entrambe la mani al viso e, dopo un lungo silenzio, disse:
- Calmate‚ giustizia sarà fatta, pàtreme ìsse l'ha accìse! -
Si avviarono verso l'interno della campagna‚ per decidere il giorno a l'ora della
vendetta.
Quella notte fu tremenda per Felice: i gemiti della sorella accrescevano in lui
un furore mai provato prima; la mamma vegliava la fanciulla senza concedersi
un istante di riposo. Nei momenti in cui il sonno distendeva i lineamenti della sventurata‚ la dita scorrevano i nodi del Rosario‚che accom-pagnava con penosi sussurri di preghiera. E venne l'alba.
L'aria fresca del mattino avvolgeva la natura ancora addormentata; piccoli
voli incoraggiavano i primi raggi del sole. Felice uscì sull'aia a si diresse verso il pozzo. Il secchio venne sù gocciolando acqua limpida e fresca. Vi immerse il viso, passando la mano bagnata sul collo e sui capelli scomposti. Si raddrizzò massaggiandosi il torace villoso e le braccia pesanti. Prese il secchio e lo svuotò in direzione del basso vigneto di uva fragola‚ ancora acerba.
Adagiò il secchio vuoto sul muretto del pozzo e‚ con passi lenti‚ guadagnò
l'uscio di casa. Mamma Rita aveva acceso il focolare ed aveva messo a bollire dell' acqua con delle piantine di camomilla.
- Ma’‚ come sta Nunziatina? - chiese il giovane sottovoce.
- Ciao mà!-
-Buon lavoro‚ figliu mio!-.
Il sole illuminava il bianco delle rade case‚ voli di passeri, tra gli alberi dalle fronde immobili. Un gregge s'arrampicava per la stretta mulattiera, che portava su in collina ed un grosso cane da pastore andava avanti ed indietro‚guidando le bestie al pascolo. Un rumore di zoccoli‚ avvertì gli uomini che don Filippo stava arrivando. Gaetano strinse il braccio del cugino per invitarlo alla calma. L'uomo arrivò e‚ senza smontare da cavallo:
-Oggi c'è lavoro solo per due! Tu e tu‚ disse, indicando Felice ed il cugino‚ venite nel fondo di compare Sabia, che c'è da zappare -.
Non ebbe il coraggio di guardarli in faccia, e non perse tempo ad allontanarsi‚ scomparendo‚ subito dopo‚ dietro il boschetto di salici. I due giovani si avviarono.
Parte seconda
Sull'aia‚ tutto il paese attendeva che la bara uscisse. Sebastiano guardava il pozzo‚ come se l'anima di Nunziatina dovesse schizzare fuori da un momento all'altro. Gruppetti muti, soffrivano il caldo nei vestiti pesanti, altri commentavano il dramma, sottovoce. Dopo circa mezz'ora‚ dall'uscio spalancato‚ le lucide sfaccettature della bara brillarono al sole. Quattro uomini reggevano il feretro sulle spalle‚ con la tempia poggiata al legno lucido. La commozione prese tutti. Felice seguiva subito dopo‚ col bavero della giacca alzato e la barba sul viso stanco‚ tirato. Gaetano e l'amico Giuvanniello gli stavano a lato‚ tenendolo sotto braccio.
Cummare Rita‚ tutta vestita di nero‚ veniva avanti urlando al mondo intero il suo dolore : - Figlia mia‚ t'ann'accisa!-
Il corpo le si piegava in due‚ nello sforzo di superare la grande sciagura. Rosa ed Ersilia‚ le due donne che avevano soccorso Nunziatina dopo li stupro‚ le stavano accanto‚ reggendola in tutto il suo peso. Il feretro si mosse lungo la "carrara". Il pianto disperato la vecchia risuonò nella piana‚ con i rintocchi della campana e gli ululati di Barone‚il cane di Nunziatina.
Sulla collina di "Spinazzo"‚ Don Filippo‚ dritto sul sul cavallo‚ seguiva la scena e non provava altri sentimenti, oltre la paura. Il sole‚ alle sua spalle‚ dava alla sua figura un non so che di irreale e di diabolico insieme. Felice‚ come attratti da una forza irresistibile‚ guardò nella sua direzione e lo scorse. Strinse gli occhi e mosse affermativamente il capo‚ giurando‚ su quel feretro‚ che gli avrebbe preso la vita. Anche Gaetano guardò ed un unico sentimento lo unì al cugino.
Nella piana non si lavorò quel giorno. Tutti avevano lasciato i campi‚ nelle prime ore del mattino e nessun sorvegliante aveva avuto il coraggio di intervenire. La ricchezza dei poveri è la solidarietà, che unisce gli animi nella cattiva sorte. Tutti i braccianti della "piana” avrebbero alzato volentieri la zappa contro l'ingiustizia‚ perché ci sono limiti‚ oltre i quali nessuno può andare: oltraggiare l'onore‚ quando questo è l'unico bene posseduto‚ è un delitto
che si paga con la vita.
Don Filippo questo lo sapeva e se ne preoccupava‚ nell'attesa impaziente di Micheluccio‚ un tirapiedi‚ cui aveva dato l'incarico di vedere come stavano le cose. Si udirono dei passi fuori casa, trasalì. Si precipitò alla finestra e lo vide :
- Entra‚ fai presto! - gli intimò.
Il giovane entrò e, togliendosi il cappello:
- Brutto segno Don Filì‚ quando la gente non parla, è pericoloso avventurarsi nella piana -.
Il "caporale” si avvicinò alla finestra, fissò l'orizzonte‚ per un lungo instante e mille pensieri lo assalirono, mentre il sole dipingeva di rosso il tramonto. Poi‚ girandosi di scatto, disse:
- Sempre pècore sono! -
- Tieni cumpariè, bevi alla mia salute! -
Micheluccio vuotò in fretta il bicchiere di vino e si congedò. Il caporale lo vide correre come se fuggisse da un appestato.
- Schifosa carogna! -
L' insulto gli veniva dalla moglie, che ora vedeva in pericolo il suo futuro e
la sicurezza economica. Don Filippo afferrò il fiasco ancora pieno e lo lanciò contro la donna‚ che si scansò appena in tempo, mentre il vino si sparse come una grossa macchia di sangue, sulla parete bianca. Angelina scappò più per superstizione‚ che per paura. Intanto‚ nella casa di Felice‚ il silenzio era totale. Donna Rita si riposava sul letto al posto della povera figlia e‚ nella cucina‚ il giovane si intratteneva con l'amico Giuvanniello ed il cugino Gaetano.
Il lume a petrolio‚ al centro del tavolo‚ illuminava scarsamente l'ambiente;
il cane‚ accucciato al lato della sedia del padrone‚ emetteva strani mugolii. Bussarono. Gaetano andò ad aprire; un ragazzino scalzo gli porse un cesto di taralli ed un fiasco di vino‚ la porta venne rinchiusa. Nessuno aveva voglia di
mangiare‚ l'immagine della ragazza era ancora tra loro: l'avevano tirata su dal
pozzo‚ dove si era gettata con la forza della disperazione.
Era stato Giuvanniello a calarsi giù ed a legare la fune intorno al cadavere. Il capo‚ col collo spezzato, dondolava come quello di una bambola rotta. Gli occhi sbarrati sembravano guardare il muretto del pozzo. La lunga camicia da notte, attaccata al corpo fradicio di acqua gelida,gocciolava. Il piede sinistro era privo dell'alluce, troncati nella caduta, dalle pietra viva del pozzo. I bei capelli neri erano aggrovigliati come una informe matassa melmosa.
Felice aveva preso il corpo della sorella e l'aveva portato in casa adagiandolo sul letto intatto. Aveva pianto col capo poggiato sul ventre profanato ed aveva sentito il gelo della morte. Giuvanniello tolse dalla tavola i "taralli” e versò il vino nel bicchiere. Felice bevve tutto d'un fiato come per allontanare la scena di morte del giorno prima. Quel vino gli sembrava sangue che chiedeva altro sangue a bevve ancora, fino a stordirsi.
Nella piana il lavoro riprese con ritmo normale. Agosto volgeva a termine con i suoi giorni infuocati ed una strana calma sembrava aleggiasse nell'aria. Il sole era calato da circa un'ora‚ quando Felice si fermò poco più avanti del podere di compare Sabìa‚ sedendosi sul tronco di un salice. Accese una sigaretta guardando fisso verso l'incrocio‚ dove la carrara lasciava intravedere una strada più grande‚ percorsa da una lenta carovana che‚ dall'agro nocerino‚si avviava verso la salita di Ogliastro. Era tempo di mercato ed i commercianti‚ appisolati sul piano dei carretti‚ carichi di semenze‚si affidavano alla esperienza dei muli‚ che già conoscevano la strada.
All'imbrunire‚ arrivò Gaetano, reggendo, con ambi la mani. l'asta della zappa :
- Sera‚ Felì -
- Sera‚ Gaetà‚ rispose il cugino‚ è molto che aspetti?-
- No ! -
Seduti l'uno accanto all'altro‚ trascorse molto tempo prima che iniziassero a parlare "del fatto".
- Allora‚ quando?- chiese Gaetano‚ rompendo quel penoso silenzio.
- È per domani sera al tramonto‚ lungo la strada dei salici‚ dove inizia il canale dei Farnesi‚ lì la strada è piena di buche ed il calesse va piano -
- Va bene! -
Felice giunse a casa per ultimo‚ la madre sentì sbattere l' uscio a lo chiamò :
- Come stai, mà ?- le chiese il giovane‚ entrando nella stanza;
- Cumm'à nà vecchia, figliu mio! -
- Va a mangià‚ cà mamma tòia nun se sènte! -.
Felice‚ dopo essersi lavato‚ si accomodò‚ si versò da bere a poi scoperchiò il piatto‚ fissando i fagioli ancora caldi. Di mala voglia mandò giù una cucchiaiata ed allontanò il piatto; si avvolse una sigaretta‚ fissando il ritratti del padre‚ sulla parete di fronte. Sì alzò‚ si diresse verso la grossa cassapanca sotto la finestra a l'aprì. Prese il fucile‚ pulendolo col panno che l'avvolgeva; l'acciaio della canna lanciò un bagliore sinistro‚ mentre il freddo della bascula diede al giovane una sensazione di potenza e di morte.
Il sonno‚ quella notte‚ tardò a venire e‚ solo all'alba‚ vi fu un momento di pace‚ col canto del gallo‚ che annunziava un nuovo giorno.
Il sole stava tramontando sul mare tranquillo e gli ultimi raggi proiettavano lunghe ombre sul viale costeggiato dai salici immobili. Un fosso erboso accompagnava‚ a sinistra‚ la carrara sconnessa. Don Filippo seguiva‚ a testa bassa‚ il bianco della strada‚ gettando‚ di tanti in tanto‚ veloci occhiate alla ruota del calesse. Il cavallo avanzava lento sul terreno spaccato e quasi si fermò‚quando l'uomo tirò le briglie : qualcuno procedeva‚ a piedi‚ avanti a lui : era Giuvanniello‚ che tornava dal lavoro.
Il "caporale” spronò l'animale‚ che si portò al trotto‚ ed il giovane fece appena in tempo a saltare nel fosso‚ imprecando a denti stretti. Don Filippo rallentò‚ si fermò‚ e guardò con strafottenza il povero bracciante che chinò la testa in segno di saluto. Il calesse proseguì per la sua strada‚ sul viso del "caporale” un ghigno soddisfatto : era il più forte. Giuvanniello risalì sulla carreggiata a fissò con malumore il calesse che s'allontanava‚ scomparendo nella curva più avanti.
Erano trascorsi cinque minuti circa‚ quando si udì uno sparo‚ che si ripercosse sinistramente nella piana. Il giovane pensò a qualche cacciatore a tirò avanti. Dopo un quarto d'ora‚ giunse nella zona dei salici. Il sole era tramontato all'orizzonte ed una leggera brezza‚ che veniva dal mare‚ muoveva la cima dei grossi alberi. Ad un tratto udì un lamento ed istintivamente si girò verso il fosso indirizzando lo sguardo lì dove l'erba sembrava tinta di rosso. Si avvicinò‚ il corpo di don Filippo giaceva lungo disteso‚ col sangue che gli usciva dal petto squarciato. La mani destra artigliava l'erba, mentre premeva la sinistra sul petto straziato. L'uomo lo guardò sbarrando gli occhi: l'angoscia aveva cancellato la strafottenza abituale di suo viso:
- Aiutami Giuvanniè! -
IL giovane stava per chinarsi‚ poi‚ all'improvviso‚ si ricordò di tante sue perfidie‚ di Nunziatina‚ del funerale‚ degli infelici che‚ come lui‚ sudavano sangue per un tozzo di pane e scappò via. Correva come se avesse avuto le ali ai piedi‚ per soffocare quell'impulso, che spinge l'uomo ad aiutare l'amico‚ il fratello‚ chiunque si trovi in pericolo. Don Filippo non era un amico‚ né un fratello‚ ma la peggiore carogna che potesse venire fuori da un ventre di donna. Più avanti rallentò l'andatura‚ aveva sentito delle voci che gli sembravano note e‚ di lì a qualche istante‚ si imbatté in Felice a Gaetano. Li chiamò e, con voce concitata, esclamò:
- Hanno sparato a don Filippo!-
I due si guardarono e‚ senza una sola parola di commento‚ proseguirono.
Giuvanniello‚ che era un tipo sveglio‚ comprese all'istante ed aggiunse:
- Mi ha chiesto aiuto, è ancora vivo!-
Felice si fermò‚ sfilò il fucile dalla spalla e mise in canna un'altra cartuccia‚ avendo cura di riporre in tasca quella già sparata. Tornò indietro di corsa a guardò bene in faccia l'uomo che tentava di alzarsi:
- Questo, per la brava gente della piana!-
La canna sinistra del fucile tuonò ancora‚ lacerando la camicia giù verso la cintura dei pantaloni. Il corpo ebbe un sussulto e cadde all'indietro sull'erba‚ dove rimase immobile. Felice guardò il sangue che sgorgava copioso,facendosi strada tra la carne squarciata ed il pezzo di camicia bruciacchiata, resisté al forte impulso di vomitare e si allontanò rivolgendo un pensiero fugace alla sorella.
-La caccia è stata buona!- disse agli amici, fissandoli per un lungo istante.
Ripresero insieme il cammino e raggiunsero ciascuno la propria casa. Calavano le ombre della sera ed il cielo si dipingeva di rosso nel punti in cui il mare rifletteva gli ultimi raggi di un sole calante.
I lumi già rischiaravano di luce pallida l'interno della casa, annerita dal fumo, e l'odore di legna bruciata si diffondeva nella campagna. Sui focolari i contadini approntavano il pasto‚ tra la voci dei bimbi a l'abbaiar dei cani alla catena. Le donne stanche rassettavano gli umili ambienti‚ mentre gli uomini si ripulivano dalla terra a dal sudore. I vecchi, seduti sull'aia‚ pensavano agli anni trascorsi e, stringendo tra le mani callose la scura creta della pipa, aspettavano silenziosi la cena‚ tra una boccata e l’altra dalla canna ricurva. Scene antiche quando il mondo sul palcoscenico della "piana"‚ dove la vita continuava la sua lenta rappresentazione.
La campagna andava impreziosendosi del silenzio della sera‚ quando spuntò un carretto‚ che avanzava macinando la terra con il ferri della grandi ruote. Il cavallo‚ sudato‚ tirava stancamente il carico di letame per la terra dei Casati e Pasquale tratteneva le redini‚ serrandole tra l’indice ed il medio. All'inizio del
lungo canale‚ incominciò a fischiettare un motivetto inesistente‚ pensando al piatto di minestra che avrebbe mangiato tra breve. Un lamento‚ seguito da un lungo rantolo‚ attirò la sua attenzione. Fermò il carretto a stette più attento. Poco più avanti‚ gli sembrò di vedere una mano che si muoveva sul ciglio del canale. Scesa e corse in quella direzione.
- Gesù,don Filippo!-
Due occhi spenti si girarono a guardarlo‚ implorando aiuto‚ con la bocca che si muoveva‚ senza che ne uscisse alcun suono. Pasquale lo tirò fuori dal fosso, senza sforzo eccessivo‚ data la sua mole e la sua forza. Lo adagiò lentamente sul caldo letame ed il puzzo del "concime” copri l'odore del sangue. Il carretto si incamminò col suo carico umano. Al villaggio‚ girò a sinistra‚ verso la casa del caporale e si fermò sull'aia‚ dopo un lungo corridoio tra i vigneti. Il cane abbaiò‚ poi corse scodinzolando verso la coda del carretto. Angelina aprì l'uscio:
- Buona sera, Pasqualì!-
Il giovane non rispose e‚ scendendo dal carretto‚ prese il corpo di don Filippo Capo e si diresse verso la casa. La donna avanzò di un passo e lanciò un urlo. Il cane accompagnò il corpo del padrone. Micheluccio‚ il tirapiedi‚ udì l'urlo dalla stalla e si precipitò in casa". Adagiarono il "caporale” sul divano.
Nella propria dimora‚ il ferito aprì gli occhi quando la moglie cercò di ripulirgli il viso con un panno bagnato.
- Pasqualì‚ andate a chiamare il dottore‚ correte‚ fatelo per i morti vostri!-
L'uomo risalì sul carretti a si avviò verso il paese. Don Filippo cercò con gli occhi Micheluccio a gli fece cenno di avvicinarsi; il giovane abbassò il capo quasi fin sopra le labbra di lui:
-.. Il maresciallo... va a chiamare il maresciallo!-
Micheluccio uscì dalla casa e corse verso il paese pigliando la scorciatoia‚ giù per la piccola scarpata‚ attraverso il vigneto di compare Albino. Angelina tolse le scarpe al marito‚ coprendo con un lenzuolo gli squarci che l'uomo aveva nel petto e nell’addome. La puzza del letame‚ unita all'odore del sangue‚ le dava il voltastomaco‚ ma si faceva forza. Chiamava il marito‚ tra un singhiozzi a l'altro‚ sentendosi impotente‚ finita.
- Chi e stato, Felì-
- Dillo ad Angelina toia!-
L'uomo non rispose‚ girò gli occhi verso la porta ed aspettò.
E’ incredibile la forza di volontà che spinge l'uomo‚ assetato di vendetta‚ a ritardare la propria morte‚ anche se nel corpo non scorre più una sola goccia di sangue.
La porta si aprì ed il maresciallo si diresse verso l' uomo‚ che sbarrò gli occhi nell'ansia di parlargli. La mano destra di don Filippo gli artigliò il braccio ed egli si chinò per ascoltarlo. Non vi fu bisogno di domande‚ il "caporale” raccolse la poche forza che gli restavano e disse‚ piuttosto chiaramente:
- M'hann'accise! Tutt'è ttre m'hanno sparate!-
- Chi?- chiese il maresciallo;
- Felice Marra, Gaetano Galdi e Giovanni Falcone. . . -
Con l' ultimo cognome‚ il corpo giacque e gli occhi rimasero sbarrati‚ come in una eterna denuncia‚ mentre la mano si bloccò intorno al braccio del
militare‚ che si liberò dalla presa‚ aprendo‚ una ad una‚ le dita rigide di morte.
Entrò il dottore ed abbassò la palpebre di quel cadavere martoriato.
Il cane ululò tre volte‚ sull'aia illuminata dalla luna. Angelina‚ chiusa nel suo dolore‚ non piangeva‚ né urlava‚come è consuetudine della donne meridio-nali‚ ma rimase immobile presso del suo uomo‚ provando per lui una pena immensa. Quella era la vendetta della "piana". Nel frattempo sopraggiunsero alcuna donne e‚ dopo numerosi a doverosi commenti‚ si diedero da fare nel preparare la salma per la veglia funebre.
In un 'altra zona del paese‚ intanto‚ qualcun altro‚ dimentico dei fatti della giornata‚ coglieva quei frutti che allietano la vita a la giovinezza‚ rendendole più belle. Il bacio di Mariuccia era stato dolcissimo‚Giuvanniello ne conservava
ancora il calore. Con le mani in tasca‚ il sorriso dei diciotto anni ed il capo che ondeggiava‚ seguendo il ritmo dei passi‚ il giovine ritornava verso casa.
La luna gli illuminava la strada ed il profumo della campagna gli entrava nei polmoni‚che respiravano soddisfatti. Era contento‚ né l'episodio del pomeriggio
lo aveva eccessivamente turbato. Prese a calci un sasso‚ che rotolò sulla strada
polverosa‚ fermandosi più il là‚ nel buio della carrara‚ che portava alla fattoria di compare Albino‚ il cacciatore.
Giunse nei pressi di casa sua ma nessun chiarore veniva dalle imposte chiuse. Sono andati a letto‚ pensò tra sé‚ rallentando il passo. Entrò in casa adagio‚ senza far rumore e‚ nel chiudere la porta‚ trattenne il saliscendi‚ per lasciarlo cadere lentamente. Accese il lume‚ ancora caldo‚ e sbirciò sulla tavola, aspettandosi di trovare la cena. Non c'era nulla. Si meravigliò‚ ma sedette ugualmente‚ per richiamare alla mente gli avvenimenti della giornata. Ad un tratto‚ una voce inconsueta risuonò nella stanza‚ alle sue spalle:
- Giuvanniè sei in arresto! -
Il giovane impallidì‚ cercando di rendersi conto della situazione. Ora udiva il pianto della madre‚ mentre il padre‚ alle spalle del maresciallo‚ aveva una espressione che non gli aveva mai visto. Non disse una parola‚ quando le manette gli stritolarono i polsi. Guardava muto i suoi genitori‚ fissando a lungo le lacrime sul volto della madre.
- Marescià n'àggio fatto niente! -
-Cammina guagliò‚ cà pò se vede –
Si allontanarono tra i singhiozzi della donna sull'aia‚ mentre la luna disegnava lunghi fantasmi tra la casa a gli alberi‚ muti spettatori di quella tragedia. E tutto tacque‚ i grilli ripresero il concerto‚ tra la fronde immobili.
Nelle prime ore del mattino‚ anche Felice venne arrestato e‚ nei pressi del pozzo‚ si fermò per guardare la madre un'ultima volta. I carabinieri lo spinsero in avanti con una sorta di delicatezza e di rispetto: avevano compreso che quello era l'epilogo di un dramma iniziato qualche tempo prima‚ in un pomeriggio di sole a di miseria. Il giovane si allontanò a testa alta‚ salutando i suoi campi‚ la casa di sui padre e la mamma‚ vestita di nero‚ che non avrebbe più rivisto. Era già lontano‚ quando sentì abbaiare alle sue spalle.
Si fermò e fissò a lungo il fedele compagno di tanti giorni di caccia‚ quando l'alba colorava i cespugli e la collina si apriva al canto degli uccelli ed al volo dei merli‚ che planavano giù a valle sulle piante di fichi. La bestia scodinzolò‚ annusandolo e leccandogli le mani ammanettate‚ poi tornò indietro‚ verso il fantasma di una donna che‚ molto presto‚ non avrebbe più dato da mangiare alla galline.
Gaetano stava "curando” i conigli dietro la stalla‚ quando il fratellino Carminuccio lo raggiunse di corsa:
- Ci soni due carabinieri che vogliono parlarti - gli disse tutti d'un fiato.
Forse dovrò partire militare commentò il giovane‚ senza tradire alcuna emozione. Girò intorno alla casa‚ mentre il padre invalido‚ seduto sulla sedia‚ guardava i due figli più piccoli che giocavano sull'aia. Una donna anziana‚ la madre di Gaetano s'asciugava le mani con un lembo del grosso grem-biule che aveva davanti. I due carabinieri‚ sotto il pergolato‚ aspettavano pazienti né si mossero‚ quando il giovane venne verso di loro con un'aria strana‚ tra il rispetto e la paura. Uno dei due‚ quelli più alto‚che s'asciugava i baffi con un fazzoletti colorato‚ dal grosso orlo ribattuto a mano‚ gli chiese:
- Sei tu Gaetano Galdi? -
- Per servirvi! - rispose il giovane‚ con un filo di voce che quasi gli moriva in gola‚intanto‚ l'altro carabiniere gli si portava alla spalle‚ dicendogli:
- Sei in arresto! -
I bambini smisero di giocare‚ un urlo di dolore giunse dalla porta socchiusa‚
il povero vecchio padre protese la braccia verso la finestra spalancata‚ mentre la labbra gli tremavano sotto la barba incolta. Mamma Filomena strinse il grembiule‚ maleodorante di aglio e di miseria‚ tra la mani ossuta ed il viso.
I tre s'allontanarono‚ seguiti‚ a distanza‚ da Carminuccio che‚ scalzo‚ li guardava in silenzio‚col viso rigato di lacrime e la mani ficcate nelle grosse tasche del pantaloncino sfilacciato‚ lacero e non adatto alla sua età.
- Gaetà! -
- Vatténne a casa e pensa a papà! -
- Gaetà! -
- Vatténne guagliò e fatte omme ambrèsse! -
Il ragazzino‚come se in quell’istante avesse compreso la gravità dell’evento‚si fermò:
- Gaetà; nce pense ìe! -
S'allontanaro‚ mentre Carminuccio tornò indietro‚ a testa bassa‚ nettandosi il
naso sul dorso della mano, sporca di terra.
Parte terza
La piana era in subbuglio. Da Battipaglia ad Ogliastro non si parlava d'altro che dell' "atto di giustizia” compiuto in difesa dell'onore e dell'onestà. La notizia dell'arresto si diffuse con una rapidità incredibile‚ per quei tempi‚ tanto che nella “ taverna” i carrettieri del nocerino commentavano il fatto‚ tra una zuppa di soffritto ed una porzione di baccalà “arrecanato”.
I caporali covavano un odio impotente‚ ma nei loro atteggiamenti bruschi‚ traspariva una sorta di un "rispetto”‚ per i lavoratori della terra‚ mai provato prima.
Razza di vipere! Rinvigorivano le loro file macinando vite ed ingrassando con il lavoro delle raccoglitrici di fragole‚ di carciofi e di pomodori. Procuratori senza scrupoli‚ se ne infischiavano della istituzioni e della morale‚ pescando nel torbido di una politica irresponsabile ed avvantaggiandosi del fallimento di quella agraria.
Nel carcere di Salerno‚ i tre attendevano di essere giudicati a l'attesa‚ nella celle‚ aveva un sapore di angoscia : chi li avrebbe difesi? Carminuccio intanto manteneva la promessa fatta al fratello Gaetano e "crebbe” all'istante‚ dimenticandosi persino di giocare a "spaccastrummolo”(3). Accudiva gli animali e lavava la gamba morta del padre‚ con una rassegnazione che lo rendeva più grande di quel che era. Le donne nella "piana” non cantavano più‚ lavoravano in gruppo‚ senza allontanarsi l'una dall'altra. E venne il tempo della vendemmia. Anche Nunziatina‚ se non fosse morta‚ avrebbe colto i grappoli maturi‚ per il vino dei Casati.
Gli altri anni‚ quelli era stati giorni di festa‚ ma quell'anno perfino l'uva faceva resistenza alla dita delle raccoglitrici. La moglie di don Filippo lavorava ora con le altre‚ ma nessuno le rivolgeva la parola. Con i capelli raccolti in una lunga traccia‚ arrotolata dietro il capo‚ evitava che il suo guardo ne incrociasse un altro ma‚ quando era sicura di non essere scorta‚ "guardava storto” e coglieva pure l'uva “puttanella"(4). La veste nera‚ unta e grigiastra per lo sporco‚ per nulla addolciva la linea pesante del corpo, piuttosto massiccio. I peli sul grossi cece‚ al lato sinistro del naso‚ erano più irti del solito‚ tanto da darle un'aria tra il coniglio ed il topo.
L'atmosfera nella piana stava cambiando‚ mentre un vago senso di dignità si faceva strada negli animi‚ troppi assuefatti a servire.
Mariuccia si era rinchiusa in sé‚ ricordando i momenti belli in compagnia del suo fidanzato": quanta nostalgia e quanta angoscia. Quell' ultima sera‚ Giuvanniello era stato particolarmente caldo‚ l'aveva baciata con un desiderio struggente‚ carezzandole le guance e la schiena delicata. La ragazza aveva sentito il sesso di lui premerle sul ventre ed aveva desiderato ardentemente che, libero dalla prigione‚ le avesse carezzato la parte alta della cosce. Per la verità il giovane cercò di forzare la resistenza dell'innamorata, ma fu lei a dirigere altrove il sesso caldo dell' uomo, con mille proteste tra le labbra umide di piacere represso :
- No, nnu' voglio! -
- Ma ... - cercò di convincerla Giuvanniello. La giovane fu irremovibile, poi, baciandolo con le labbra calde, cercò di svuotare l'oggetto del desiderio, con mille movimenti della mano inesperta. Forse avvertendo inconsciamente il dramma dei prossimi giorni‚ il giovane desiderò amarla di più e sbottonandole la camicetta, liberò le mammelle dai piccoli capezzoli scuri : gemiti di piacere tra momenti di smarrimento. La mano, lasciata la pelle eburnea del seno, si infilò sotto la gonna larga‚ carezzando le cosce di fuoco e, quando rag-giunse l’ incavo dolce ed irrequieto, Mariuccia si sentì svenire, cedendo appena sulle gambe tremanti. Un unico sussulto li avvinse, mentre le loro lingue s'incrociarono, per sublimare quell'attimo. Anche Giuvanniello ricordava quei momenti dolcissimi‚ fissando la tenue luce che filtrava dalla piccola finestra della cella. Tra qualche qualche giorno ci sarebbe stato il processo e sperava in una pena mite‚ non avendo preso parte al delitto.
Felice non sperava più in nulla‚ chiuso in sé stesso‚ era sempre più convinto che "l'atto di giustizia” andava fatto. Gaetano pensava ai suoi vecchi‚ al fratello Carminuccio e sperava che il ragazzo fosse cresciuto in fretta‚ tanto più che aveva la strana sensazione‚ che non avrebbe rivisto più la sua casa.
Era il 15 marzo del 1908¸ quando il giudizio iniziò nel Tribunale i Salerno e gli imputati ebbero una difesa d'ufficio. Dopo giorni di interrogatori‚ di arringhe e di false speranze‚ fu pronunciata la sentenza‚ dura e spietata : ergastolo.
Era il tempo in cui in Italia del nord iniziava la lotta sindacale del mondo operaio e contadino; al ponte di Berra i soldati sparavano contro i lavoratori della terra‚ mentre il sud lottava con la fame a la miseria. Era quest' ultima che armava il coraggio dei nostri emigranti. Quelli che rimanevano, venivano tenuti nell’ignoranza e nella superstizione‚ alimentata da visioni apocalittiche, di retaggio feudale.
In questi clima sociale si trovarono a vivere i nostri protagonisti; ecco perchè vendicarono l'unico affronto, che mai avrebbero potuto sopportare.
Giuvanniello‚ alla Gorgona di Livorno‚ rigirava, tra le mani sudate, l'ultima lettera di Mariuccia‚ trattenendo a stento le lacrime‚ con l'angoscia che ti rode nelle situazioni di impotenza.
La ragazza prometteva di attenderlo a gli giurava quell'amore che tutte le innamorate‚ a diciotto anni‚ giurano al loro fidanzato. Le parole di Mariuccia erano sincere‚ accorate e mostravano tutto il dolore di chi viene privato dell'unico bene che dà uno scopo alla vita. Fu allora che il giovane capì di dover chiudere per sempre quel capitolo della sua vita. Scrisse alla fanciulla‚ che la liberava da ogni impegno e che‚ se gli voleva bene‚ doveva pensare a sposarsi con chi avrebbe potuto ridarle il sorriso e quei figli che avrebbero allietato la sua casa di donna e di sposa felice.
I giorni trascorrevano lenti nella piana a Mariuccia aspettava con ansia la risposta alla sua ultima lettera. Finalmente‚ quel lunedì mattina‚ sentì il fischio del postino e si precipitò sull'aia. Corsa verso il calesse‚ asciugandosi sul grembiule la mani bagnata di bucato. Prese la lettera e corse verso la campagna‚ seguita dagli sguardi pensierosi della madre. Si addentrò nel vialetto‚ tra la vigna ed i salici‚ sedendo‚ affannata sull'erba. Per un lungo istante‚ il cuore smise di battere a gli occhi fissarono lucidi quello scrigno di speranze‚ prima che lo aprisse con la mani tremanti e nervose. Estrasse il foglio lentamente‚ poi‚ d'un tratto‚ lo aprì a lesse. Le lacrime di Mariuccia scesero copiose, fino al cuore. Riattraversò‚ di corsa‚ la campagna‚ coprendo in breve tempo di spazio dal vigneto alla casa; sull'aia‚ le galline lasciarono i chicchi di grano e scapparono dividendosi in due gruppi disordinati.
Nella penombra della camera da letto‚ il materasso di spoglie accolse i penosi singhiozzi della giovane‚ con un brusio di foglie secche. Alla spalle‚ un'ombra osservava in silenzio: era Assunta che assisteva alla disperazione della figlia‚ anche a lei sarebbe piaciuto che Giuvanniello fosse entrato in casa sua‚ quella casa che‚ da tempo‚ mancava di un uomo‚ dopo la morte del marito Nunzio. La donna prese la lettera sgualcita dalla mani della figlia a lesse faticosamente tra la righe‚ comprendendo più per intuito‚ che per espe-rienza di lettura. Sedette sul bordo del letto accarezzò il capo della sua creatura‚ come faceva un tempo. Stettero a lungo l'una vicino all'altra‚ senza dire una parola. Di fronte al letto‚ una specie di armadio senza specchi custodiva il misero corredo di Mariuccia‚ mentre‚ sul vecchio comò‚ la fotografia di compare Nunzio troneggiava al centro delle altre fotografie di defunti‚ messe lì come lari protettori. La giornata si spense lentamente e la notte sopraggiunse sulla casa‚ sugli animali e sui sogni della ragazza.
Gaetano‚ a Portolongone‚ iniziò la sua vita di recluso‚ spegnendosi giorno dopo giorno‚ con gli occhi fissi sulla piccola finestra della cella umida ed angusta. Per circa cinque anni‚ visse nell'attesa della lettera che gli inviava Carminuccio‚ ma quando apprese della morte del padre prima e della madre poi‚ si lasciò andare. Morì il 20 febbraio del 1913‚ all'alba del primo conflitto mondiale.
Era il periodo della guerra balcanica e di mille illusioni di conquista. La pace di Losanna dava all'Italia il possesso della Libia‚ la cui conquista fu possibile solamente molti anni dopo. Il nazionalismo si andava affermando come movimento letterario e politico‚ Gabriele D'Annunzio inneggiava alla forza a al dinamismo. Quanto ai socialisti‚ la guerra libica aveva riportato in auge la corrente massimalista e rafforzata quella rivoluzionaria‚ ove militava Benito Mussolini che‚ insieme all' allora repubblicano Pietro Nenni‚ aveva organizzato manifestazioni di protesta‚ violentissime‚ a Forlì. Ad Ancona‚ la polizia sparava su di una manifestazione socialista‚ ammazzando tre dimo-stranti; lo sciopero era proclamato in tutta Italia ed il paese veniva scosso da violenze ed atti di teppismo. La settimana rossa rappresentava l'epicentro di tutta una serie di sommosse nella Marche ed in Romagna‚ nonché l'inizio della crisi profonda del movimenti operaio italiano. IL Sud era pressoché assente‚ come assente era qualunque tentativo di riforma agraria‚ dal momento che la legalità era nella mani dei latifondisti a della piccola borghesia. I caporali fissavano le condizioni con i padroni e ciò significava miseria‚ per i lavoratori della terra, quella che impediva la loro emancipazione e favoriva l'emarginazione del sud. Nel 1906 la Società Umanitaria‚ in concomitanza con la Federterra, riusciva a fare i primi passi contro il caporalato
e la disoccupazione‚ portando l'assise del primo congresso internazionale a votare per la istituzione degli uffici interregionali di collocamento. Ma gli imprenditori padani ed i caporali del sud‚ vinsero la battaglia‚ perchè appoggiati dalle forze patronali e dallo stesso stato. Invano il Giolitti ‚ allora Presidente del Consiglio‚ appoggiò il disegno di legge, che prevedeva la fine della mafia d'ingaggio. Era anni difficili. Sembrava‚ infatti‚ che il mondo fosse sopra una grossa polveriera e Prencip‚ lo slavo irredentista‚ ne accese la miccia che incendiò‚ in breve tempo‚ il furore degli uomini.
L'Italia‚ incerta a dubbiosa‚ cercava una sua linea di condotta‚ sballottata‚ come sempre‚ da molteplici forza politiche; finché non vinsero gli interventisti a fu la guerra. Era il 24 maggio del 1915. Povera Italia! Mal governata e sedotta‚ come una bella donna‚ dal gioco di forze più grandi di lei.
Il 6 aprile del 1917‚ gli Stati Uniti entravano in guerra e Wilson presentava l'intervento come una lotta per la democrazia‚ per la libertà a per un'egemonia universale del diritto. Sul fronte occidentale‚ seguì la famosa ritirata di Caporetto.
Ardengo Soffici assisté alla sconfitta della seconda armata‚ alla quale apparteneva come ufficiale. Gli italiani ebbero 400mila morti e feriti‚ mentre i socialisti‚ con i cattolici‚ continuavano la loro propaganda pacifista. Nel gennaio del 1919‚ dopo l’offensiva vittoriosa del Diaz‚ si apriva a Parigi la conferenza della pace.
Sia Giuvanniello che Felice‚ nella loro celle‚ non seppero che poche notizie di questi eventi storici. I giorni passavano lentamente e gli anni era secoli. La vita del carcera era dura ed i problemi più semplici si ingigantivano fino ad assumere proporzioni assurde. Il sesso diveniva il pensieri dominante e generava manifestazioni innaturali che rendevano la fantasia fervida di espedienti. Nella lunga attesa di niente‚ la dita veloci impastavano la mollica del pane‚ che‚ lentamente‚ assumeva la forma del sesso femminile: la massa molle riproduceva le grandi labbra‚ dove il sesso turgido andava ad infilarsi nelle lunghe notti insonni. Anche Giuvanniello‚ dopo mesi di astinenza‚ volle illudersi di essere con la sua donna.
Parte quarta
Mariuccia attese‚ per sette lunghi anni‚ il ritorno di Giuvanniello‚ poi‚ la lettera del giovane e la convinzione che la domanda di grazia non sarebbe mai stata accettata‚ maturarono nella donna la decisione di fidanzarsi con un bravo giovane‚ Pasqualino quello stesso che aveva raccolto il corpo morente di don Filippo ò capuràle.
Nel maggio del 1914‚ i due si sposarono ed andarono a vivere nella casetta della madre di lei. Mamma Assunta era morta l'anni prima‚ con una gran pena nel cuore‚ e fu in quella casa che i due sposini iniziarono la loro vita di sacrifici.
Quando Giuvanniello seppe‚ tramite Carminuccio‚ del matrimonio della sua fidanzata‚ tra le lacrime‚ approvò quella decisione. Quell'evento causò nel giovane un atteggiamento nuovo‚ infatti decise di apprendere un lavoro che gli permettesse di sopravvivere. Iniziò a frequentare la grossa falegnameria del penitenziario‚ specializzandosi in ebanisteria. Apprese quest'arte sotto la guida di un altro detenuto‚ un vecchio catanese che gli fece da maestro.
Carminuccio‚ nel frattempo‚ era cresciuto ed ora aveva quasi vent'anni. Alto‚ agile e sicuro di sé‚ parlava del fratello Gaetano come di un eroe‚ che aveva sistemato le cose della piana. Effettivamente la situazione era di molto migliorata; non che fossa finita la miseria‚ ma almeno i caporali l’avevano smesso con lo strozzinaggio ed i ricatti.
Intanto‚ il dopoguerra preparava nuove pagine di storia. Il partito socialista si dilaniava nelle lotte interne‚ mentre un certo movimento nasceva con carattere di elìte: Benito Mussolini dava l'avvento al fascismo.
Era il 1919. Nel settembre del 1920‚ operai e sindacalisti socialisti occuparono le fabbriche‚ chiedendo il rinvio del contratto ed aumenti salariali‚ ma i risultati furono deludenti. Nel gennaio del 1921‚ a Livorno‚ la corrente che faceva capo a Gramsci decisa di staccarsi dal partito socialista e fondare un nuovo partito : il partito comunista Italia. Mentre nel nord il contadino cessava di essere un salariato e diveniva socio d'azienda‚ nel Mezzogiorno‚ dove il latifondo era ancora radicato‚ non si verificò alcuna riforma agraria‚ soffocando il grido - La terra ai contadini!- e deludendo la speranza delle masse.
Gli eventi precipitarono‚ le squadre fasciste aumentarono la loro forza e‚ col beneplaciti dell'esercito e della polizia‚ organizzarono spedizioni punitive. Il 24 ottobre del 1922‚ le forze fasciste‚ concentrate a Napoli‚ iniziarono la marcia su Roma‚ ove entrarono il 28 ottobre. Quattro giorni dopo‚ Mussolini ebbe dal Re l'incarico di formare il nuovo governo. Seguirono le elezioni che determinarono la maggioranza parlamentare del fascismo e l'assassinio di Matteotti.
Il 31 ottobre del 1926‚ Zaniboni attentava alla vita di Mussolini che‚ nel novembre dello stesso anno‚ deliberava lo scioglimento di tutti i partiti e l'istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Dal 29 al 36‚ il regime conobbe i suoi anni migliori; in questo periodo sorse il mito del Duce‚ sotto l'azione della propaganda per l'incremento demografico‚ della politica agraria a con la battaglia del grano. Era il tempo in cui l'Italia si sentiva realmente fascista‚ né si sognava tanti anti-fascisti‚ quanti sostengono oggi di esserlo stato. Era tempi brutti che dove-vano servire da insegnamento‚ non da spauracchio di comodo.
Il 5 maggio del 1936, si concludeva l'impresa Etiopica, con l'occupa-zione di Addis Abeba e Vittorio Emanuele II diveniva imperatore.
Il 15 maggio, Giovanni Falcone veniva messo in libertà dopo 2 anni di reclusione. Alla stazione di Napoli, incominciò a respirare l'aria della sua terra.
Nell'animo, i sentimenti più contrastanti si alternavano ad una gioia immensa. Il treno si mosse a l'ansia crebbe con la stessa velocità della campagna che gli veniva incontro.
La piccola stazione di Capaccio Scalo era gremita: Carminuccio, vestito a festa, andava su e giù, sorridendo a tutti coloro che si rallegrava per l'arrivo del compaesano Era come se aspettasse il fratello, quello che aveva perso nel carcere di Portolongone. Pochi erano rimasti della vecchia guardia, ma tutti sapevano del fatto accaduto ventotto anni prima.
Compare Albino era stato tra i primi a recarsi alla stazione‚ partendo di buon mattino col suo abito buono ed il mezzo sigaro in bocca. C'era pure Micheluccio‚ l'ex tirapiedi di don Filippo. Finalmente‚ il fischio del treno ruppe l'ansia di tutti e la piccola folla si accalcò nei pressi dei binari.
- Eccolo‚ eccolo! - qualcuno gridò‚ ma il treno era ancora distante e si scorgeva solo la testa del macchinista‚ che guardava preoccupato la folla. Il treno sbuffò‚ rallentò‚ si fermò con un lungo sibilo. La folla assaltò i primi due vagoni, qualcuno gridò in corrispondenza dei finestrini :
- Giuvanniè‚ Giuvanniè! -
Per cinque lunghi minuti nessuno scese‚ nessuno si mostrò.La piccola folla ondeggiò‚ mentre il mormorio si fece sempre più forte. Qualcuno chiese :
- Carninuccio‚ si sicuro ch'è chìsto o treno? -
Il giovane non rispose a si spostò lungo i Vagoni‚ verso destra. Nel quarto‚ lo sportelli si aprì. Carminuccio accorse‚ si fermò e guardò nel vano: Giuvanniello era là‚ con due valige in mano ed il volto rigato di lacrime. Un modesto vestito blu‚ a righe bianche delineava il corpo ancora snello, ma come era diverso al giovane che era partito tanti anni prima. I capelli brizzolati con due grosse ciocche bianche alla tempie‚ mettevano in risalto le rughe del viso scavato dalla sofferenza. Scese due gradini del treno e si fermò lasciando cadere la valigie. Si strinsero in un abbraccio senza parole, mentre il treno ripartiva con un lungo fischio. La folla attese‚ pazientemente‚ che si salutassero‚ poi‚ con grida festose‚ corse verso di loro, con una generosità che è tipica dei meridionali :
- Giuvanniè‚ salute! -
- Ben tornato Giuvanniè! -.
L'uomo si fece largo ringraziando e si diresse verso l'uscita‚ dove compare Albino aspettava. Il vecchio lo guardò‚ con le mani che gli tremavano ed una lacrima‚che subito asciugò con l'indice destro.
- Giuvanniè!..- mormorò, con un filo di voce, che era un singhiozzo.
L'uomo abbracciò quel povero vecchio ed insieme uscirono fuori sulla strada‚ dove Carminuccio attendeva con il calesse‚ già carico delle due valigie. Salirono e si allontanarono‚salutati calorosamente dalla folla. Nessuno dei tre parlò‚ nel lungo tragitto verso casa. Il mattino era pieno di sole e gli alberi ombreggiavano silenziosi e tranquilli.
Per qualche chilometro‚ la strada continuò diritta a polverosa‚ poi‚ uscirono all'aperto‚ tra due ali immense di campi‚ con lunghi filari di salici all'orizzonte. Una leggera brezza‚ da sinistra‚ portava il profumo del mare. Giuvanniello chiuse gli occhi a respirò a pieni polmoni l'aria della "piana". Una grossa mandria di bufali si godeva il sole‚ nell'ultimo tratto della terra dei Casati‚ quando il calesse rallentò. Giuvanniello fissò Carminuccio‚ quasi a chiedergli il perché‚ il giovane guardava verso una piccola fattoria‚ con l'entrata rivolta verso il mare ed un vialetto‚ costeggiato da gerani a rose‚ che immetteva sulla strada. Una donna‚non più giovane guardava verso di loro‚ si alzò‚ fece un passo avanti e si fermò incerta. Giuvanniello si accorse di lei e la fissò finché il calesse non si fermò completamente‚ a pochi passi da lei. Il volto stanco mostrava le rughe del tempo‚ gli occhi tristi avevano qualcosa di familiare:
- Giuvanniè! - I singhiozzi della donna erano penosi‚ ma li soffocò in un grosso fazzoletto colorato. L'uomo si sentì turbato e‚ reggendosi sul ginocchio del giovane amico‚ scese dal calesse:
- Mariu'! –
Si abbracciarono. Dov'era finita la sua meravigliosa freschezza! In quell' ab-braccio vi era il dolore di trent'anni. Giuvanniello l'allontanò con garbo e guardò con tristezza la casa solitaria‚ desolata‚come la povera donna‚ vestita di nero‚ che gli stava di fronte.
- E tuo marito? -
- È morto l'altr’anno –
- Come è andata l'annata scorsa -
- Quest'anno andrà meglio - gli rispose‚alzando le spalle con una rassegnazione,
che Giuvanniello non ricordava.
-Vienimi a trovare‚ quando avrai un poco di tempo -
- Verrò! - rispose l'uomo‚ guardandola allontanarsi per lo stretto viale‚ verso la casa grigia. Risalì sul calesse‚ che riprese la sua corsa verso "femmena morta".
Le prime case gli venivano incontro‚ con quell' aria tra il triste ed il dormiente‚ mentre i raggi del sole‚ mettevano in risalto il giallo delle facciate‚ sotto gli spioventi di tegole cotte. Non era poi cambiato molto il suo paese‚ pensava Giuvanniello ed aveva la piacevole sensazione di non essersi mai allontanato dalla sua terra. Ed i caporali ? Quelli avevano finito di stuprare e schiavizzare‚ ma c'erano ancora e ci sarebbero sempre stati‚ finché ci sarebbero stati loro : i padroni e la povera gente‚ quella che non ha altro che due braccia per lavorare‚ con la schiena ricurva e le mani deturpate dai calli‚ con le macchie delle piante ruvide dei carciofini.
I caporali‚ razza dura a morire‚ indistruttibili come la gramigna‚che spunta ovunque e non si distrugge mai. Cambiano i tempi a cambia il loro approccio con il mondi del lavoro‚ ma in sostanza il risultati è il medesimo : lo sfruttamento delle masse‚ un dissanguamento costante‚ parassitario‚ volto alla speculazione. Forse‚ anche essi servono‚ come servono gli ignoranti e gli sciacalli‚ servono al gioco dei potenti per creare nuove forme capitalistiche poggiate sull'illegalità.
Felice‚ scarcerato‚ un anno prima non era andato alla staziona per ricevere l'amico. Forse per un sensi di colpa verso il fratello di sventura‚ che aveva pagati per il suo delitto. I due si incontrarono due giorni dopo‚ in quella stessa campagna che era stato il teatro della loro impresa.
- Siamo dei sopravvissuti - iniziò Felice‚ parlando a testa bassa e con le mani in tasca‚ come per prendere coraggio.
- Quel che abbiamo fatto‚ andava fatto! E’ la legge della vita!- aggiunse Giuvanniello‚ appoggiandosi sulla gamba buona‚ quella che non aveva subito le conseguenze dell'anello della prigione. Il discorso andò avanti per un bel pezzo e si concluse con un abbraccio e qualche lacrima amara.
Il sole tramontava all'orizzonte e la piana andava riempiendosi della voci della sera‚ del fumo dei focolari a del latrati dei cani sulla aie. Nulla era cambiato e la nuova generazione era forse più vivace‚ ma con lo stesso sguardo deciso‚ quello che scruta la terra‚ ma sa opporsi alle ingiustizie dei caporali.
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(*) Al mio caro amico Franco Angrisano, il celebre Padre Tobia della Rai degli anni 60 e validissimo attore della
compagnia Di Eduardo De Filippo.
(1) Carrara, carraia,strada per carretti.
(2) Dobbiamo uccidere quella belva.
(3) Spaccastrummolo:antico gioco campano, fatto con una trottolina di legno con punta metallica ed uno spago.
(4) Uva puttanella: uva selvatica, piccola ed amara.
Franco Pastore