MATRIMONIO IN FAMIGLIA
Non fu certo il suono della sveglia a farmi scendere dal letto, infatti, non avevo chiuso occhio tutta la notte. Mi alzai e, come uno zompi, uscii sul terrazzo della camera da letto. L’aria calda della notte, per un attimo, mi fece mancare il respiro. Guardai le luci delle navi che sostavano al largo del golfo e richiusi il balcone, per non perdere il fresco dell’aria condizionata nella stanza.
Mia moglie dormiva profondamente, mentre mio figlio russava nella stanza accanto. Guardai nuovamente l’ora: erano le quattro e quindici. Andai in cucina a fare il caffè, ma prima misi a sciogliere una pasticca di propoli in un bicchiere di acqua a temperatura ambiente. Aprii il balcone sul terrazzo: il mare era una tavola luccicante, alla luce della luna piena. Stavo innaffiando la piantina nel vaso di terracotta, quando il dolce mormorio della caffettiera mi attrasse ed il profumo invitante del caffè non mi fece pensare ad altro. Spensi la fiamma e cercai lo zucchero.
Il respiro pesante di mia moglie mi fece esitare qualche istante, ma ruppi ogni indugio e la svegliai dicendo a voce alta: il caffè. Si stiracchiò con le mani serrate a pugno e sbadigliò pigramente, agitando vistosamente le palpebre nel tentativo di mettermi a fuoco. Il caffè, ripetei più dolcemente e le porsi la tazzina meno zuccherata. Insieme, andammo a svegliare Danielino.
Erano le cinque e qualche minuto, quando attraversammo il cortile tra i due palazzi; sul largo marciapiede, un gatto scappò rifugiandosi tra i cassonetti d’immondizia. Svoltammo a destra, dirigendoci, rapidamente, verso la macchina, parcheggiata tra il supermercato e la Banca dell’Irpinia. L’auto era incredibilmente piena di bagagli e fu arduo sistemare le ultime cose. Stavamo per partire, quando mi accorsi di non avere contanti; prelevai, allora, centocinquanta euro allo sportello automatico e ci avviammo come Dio volle. Mia moglie fece il segno della croce.
Quel gesto spontaneo, che automaticamente ripetei mentalmente, mi apparve tutt’altro che propiziatorio: era come se ci preparassimo al peggio.
La tangenziale ci portò sulla Salerno – Reggio Calabria e la strada ci apparve liscia come l’olio e tranquilla, con qualche sparuta macchina che lentamente procedeva verso Sud. La nostra dedra 2000, due volte revisionata, senza contare l’ultimo controllo fatto il giorno prima da “Gesucristo”, così ho soprannominato il nostro meccanico, per l’abitudine di incrociare le braccia sul petto, correva tranquillamente sull’asfalto ancora freddo del mattino.
Il primo sole si intravedeva al di là dei monti, quando presi la basentana, che doveva portarmi alla superstrada Brindisi – Lecce. Volli fermarmi per un caffè, presso una stazione di servizio, ma il bar era ancora chiuso. L’aria pungente del mattino ed i duecento chilometri già percorsi ci spinsero a chiedere dei servizi igienici. Chiusi la macchina e ci dirigemmo verso una bassa struttura, dove una vecchia arcigna ed armata di scopa ci sbarrò il passo; con gli occhi sbarrati sopra i baffi alla Dartagnan, ci disse che stava facendo le pulizie e quindi non potevamo accedere alla struttura. Dio mio! Implorai, guardando l’azzurro intenso e limpido del mattino. Erano circa le sette ed il segno di croce di mia moglie incominciò a prendere il suo significato. Guardai intensamente la topa baffuta e le feci comprendere che dovevo entrare nei servizi, altrimenti non avrei potuto riprendere il viaggio. Ebbe una folgorazione e finalmente comprese.
Riprendemmo il nostro viaggio e proseguimmo per la ss7, in direzione di Francavilla Fontana. Ci fermammo, per quel benedetto caffè che non avevamo potuto prendere prima, ed entrammo in un bar, dove si vendeva un po’ di tutto: dai tranci di pizza con salsa di conserva, ai tarallucci pugliesi al peperoncino. Ordinai due caffè. Per Daniel ordinai due tranci di pizza, che il più giovane dei due inservienti, o forse i proprietari, afferrò con malagrazia, affondando il pollicione nel rosso della salsa tirata. Mia moglie era sul punto di intervenire, ma la bloccai per una sorta di simpatia per Giosuè Carducci, quello più anziano vi somigliava incredibilmente. Prendemmo le pizze al pollicione e ripartimmo con la ciofeca al caffè, che ci ballava dentro; in macchina sdrammatizzai e mi avventurai in una accorata difesa del nostro sud: il pollicione, sostenevo sfacciatamente, non significava nulla, certamente quel signore aveva lavato bene le mani, prima di accingersi a servire. Forse, continuai, se fosse stato il mignolino la cosa era da considerare diversamente, per le sue funzioni di pulizia; per non parlare dell’indice e del medio, indispensabili per certe funzioni. Ci diedi un taglio: mio figlio si accingeva a fare colazione. Siamo a buon punto, dissi a mia moglie, infatti, avevamo raggiunto l’uscita per Francavilla e la mia compagna mi faceva notare che doveva essere un grosso centro. Brindisi era a due passi; presto avremmo preso la superstrada per Lecce.
La macchina volava come una forsennata e l’aria fresca di quel mattino inoltrato rendeva superfluo il ricorso all’aria condizionata. Ci rallegrammo in cuor nostro e peccammo di ingenuità. Guardai la strumentazione e la temperatura dell’olio era altissima, ma la temperatura dell’acqua era meno di novanta gradi e non mi preoccupai. Sbagliai. Di li ad un paio di minuti, sentii un rumore insistente, pensai fosse il vento che giocava con il vuoto dei quattro vetri parzialmente abbassati, ma, successivamente mi resi conto che erano le bielle che ballavano sulle bronzine fuse. In un attimo, la mia macchina si trasformò nell’orchestra “Anepeta” al completo, con piatti e tamburi. Cercai una piazzola, ma vidi soltanto lo svincolo per Latiano ovest. Presi per la rampa di uscita ed accostai rapidamente sulla destra.
Ero fortemente incazzato. Aprii il cofano anteriore ed un fumo denso mi investì. Preoccupato, dissi ai miei di uscire dalla macchina e di mettersi a ridosso del guardrail, ma il fumo diradò rapidamente, mentre la macchina gemeva come una “troia” ferita .
State tranquilli, che ce la caveremo! Dissi a mia moglie ed a mio figlio, ma dentro di me ero agitato ed infuriato. Aprii completamente vetri e sportelli, mi sedetti al posto di guida ed incominciai a raccogliere le idee: avevamo un’assicurazione per i rischi del viaggio, telefonai, mi rispose una bella voce di danna, mi rincuorai. Quando squillò il telefonino, stavo sbuffando come una ciminiera: il caldo incominciava a togliermi l’aria. Quelli dell’Assicurazione mi avvertivano che sarebbe arrivato un soccorso stradale di li a mezz’ora. Mi sentii meglio. Telefonai a mia figlia spiegandole l’accaduto e mi preparai, psicologicamente, ad attendere.
Erano le nove e trenta passate e del soccorso nemmeno l’ombra. Il sole infuocava sempre più l’asfalto della superstrada e la macchina era un guscio rovente, che una brezza pietosa cercava di arieggiare. Iniziarono i miei problemi di asmatico, che mia moglie cercava di sminuire, per sdrammatizzare la situazione. Danielino mi agitava, a mo’ di ventaglio, dei fogli, per farmi aria; incominciai a preoccuparmi. Per distrarmi, mentalmente rivolgevo alla macchina gli improperi più volgari e mi meravigliai della naturalezza con la quale affioravano nella mia mente. La zozza. L’avevo fatta pure lavare!
Mentre boccheggiavo, pensando di dover tirare le cuoia sotto il sole della Puglia, vediamo le luci intermittenti del carro attrezzi, che veniva sull’altra corsia, in senso contrario.
- Sono qui! – gridai.
- Siamo qui! – fecero eco Daniel e mia moglie.
Macché, le luci scomparvero come un miraggio nel deserto. Pensammo fosse andato a fare inversione, ma non lo si vide più. Mio figlio, in ansia per la mia salute, bagnava i fazzoletti e mi “schiaffava” in fronte l’impasto molliccio. Stavo per vomitare. Mi girai e gridai all’aria:
- Dove sei andato, pezzo di cornuto!-
Fu come se aspettasse quel mio dolce richiamo. Apparve, infatti, all’improvviso, tra i fumi dell’asfalto, imponente come l’arcangelo Gabriele ed accolto, da noi, come Gesù nel giorno di Pasqua. Il mezzo si fermò e scese “Giuseppe Garibaldi”, senza barba e con la faccia tafagna. Erano le dieci e cinque del mattino, di quel mattino di fuoco.
Eravamo in quattro nella cabina dell’automezzo, diretti a Brindisi, attraverso le
campagne bruciate ed i filari di ulivi contorti. Squillò il telefono ed una voce ci avvertiva che non era quello il carro attrezzi inviatoci dall’agenzia e Garibaldi ci confermava la casualità del suo intervento.
- Je m’en frotte – pensai, in napoletano.
Ero salvo.
- Ci vuole il motore nuovo – mi stava dicendo Giuseppe. Lo sapevo benissimo, ma non risposi:
a quel punto mi importava solo di un po’ di fresco e di un buon letto.
Giungemmo al deposito garibaldino alle dieci e trenta, parcheggiammo la “troia” con tutte le vettovaglie ed i bagagli e, dopo un gradito rinfresco del nostro anfitrione, ripartimmo per Lecce, con gli abiti buoni sulle stampelle e la mia ventiquattrore. Il nostro buon Giuseppe ci depositò davanti all’Hotel Cappello, accettò una ciofeca al caffè ed andò via. Noi, tre disgraziati, attendemmo, nei pressi della reception, che la nostra camera, prenotata da mia figlia e riconfermata on line da me, si liberasse da ospiti poco rispettosi delle regole. Erano le dodici circa, quando un bel letto comodo offrì il meritato riposo al mio povero corpo distrutto.
Il primo round era terminato con la mia totale sconfitta. Ebbi appena il tempo di rassicurare, per telefono, mia figlia sulla felice conclusione dell’avventura, che la “cichiglia” mi chiuse gli occhi in un lungo sonno ristoratore.
Alle sedici ci accingemmo a prepararci per il matrimonio. La stanza era gelida per un eccesso di aria condizionata: mossi la testa in senso circolare ed il collo scricchiolò come se dovesse andare in mille pezzi. A turno, ci servimmo dell’unico bagno senza finestre ed alle diciassette e trenta, il tassinaro ci accolse con un bel sorriso durbans alla nicotin.
Come eravamo belli: mia moglie, bruna, sudata e scioccata, sembrava una spagnola di origine marocchina; Daniel era il più caruccio, con le scarpe nuove ed il pantalone all’ultimo moda dei gelatai, mentre io ero quello più arriffabile, con il vestito blu e la camicia paglierina.
Intanto il caldo infieriva ed i quattro capelli grigio-biondi facevano una tenerezza infinita sulla testa lucida di sudore. Pensai che Doriana avrebbe visto il padre e non il cinquantenne avariato e mi consolai. Il tassì si fermò davanti alla basilica di Santa Croce. La seconda parte di quell’avventura era iniziata.
Dino ed i on suoceri furono cortesissimi, la mia prima moglie mi ignorava con una principesca eleganza ed il mio primogenito Ermanno si accingeva a predisporre le musiche ed i canti per la cerimonia della sorella. Tutto era perfetto.
La chiesa era un capolavoro dell’arte cinquecentesca, di stile barocco, dal disegno inconsueto: non un centimetro della facciata era senza decoro. I tre portali del prospetto recavano gli stemmi dei celestini, evidenziati da una splendida balconata, retta da tredici cariatidi, tra le quali intravedevo il viso di Garibaldi, la megera della basentana ed altri animali fantastici e sicuramente allegorici, che completavano tutta la lunghezza della balaustra; mentre, due grosse nicchie, recanti le statue di S. Benedetto e S. Celestino, dominavano il campo della facciata. Traspariva, qua e là, una certa ispirazione romanica, che dalle colonne superiori andava a concentrarsi nel grande rosone tra i due santi. Una grandiosità che mi lasciò senza fiato e mi spinse ad entrare, con la segreta speranza di altre scoperte. La semplicità dell’interno, invece, formava un geniale e sorprendente contrasto, che permetteva allo spirito di espandersi tra le sedici colonne cinquecentesche e le tre navate, dominate da un altare maggiore preziosissimo, dalle colonne intarsiate. Avevo compreso il perché del matrimonio in quella chiesa.
Tutti gli invitati avevano preso posto tra gli scanni ed il prete attendeva sull’altare l’arrivo degli sposi. Qualcuno mormorò: -È arrivata !- Mio genero si mosse verso l’uscita. Le due coppie di testimoni erano già nelle loro postazioni, quando si sentì applaudire. Guardai. La vidi che veniva con Dino verso l’Altare maggiore, mentre il mio Ermanno iniziava le prime note della Ave Maria. Nella vita di ogni uomo c’è un momento magico, particolare, in cui umano e divino si fondono e ti regalano l’immenso: quello era il mio momento. La mia Doriana era splendida,
felice, sorridente e serena. Ebbi una punta d’orgoglio: era mia figlia. Scivolava verso di me, nel suo splendido vestito color panna e, bionda, solare, andava incontro alla vita. L’effetto era bellissimo, ma desiderai in quel momento di essere al posto di mio genero e sentire, attraverso il suo braccio, i suoi pensieri e le sue emozioni: sentii il mio cuore cedere e tremai con ogni fibra del mio corpo.
Cercai di distrarmi, ma fu inutile. Andrea, mio nipote, mi salutò; gli sorrisi. Intanto, il corteo giunse alla mia altezza e mia figlia mi passò vicino: sembrava una madonna veneta, vanto della Serenissima ed in quella cornice, poi, mi ricordava i colori del Tiziano, mentre ogni centimetro del suo viso veniva esplorato dai miei occhi di padre. Si girò, mi sorrise e si commosse. Senza accorgermene, stavo piangendo. La voce di Ermanno esplodeva nella discreta penombra e le note sapienti volavano verso la luce delle sacre vetrate, lambendo i capitelli ricamati: quella esperienza mi mancava, dovevo essere lì e…ci stavo.
La voce di don Rincoglio segnò la fine di un sogno ad occhi aperti: - Cari figlioli, siamo qui riuniti per celebrare il matrimonio tra Dino e Doriana …- e continuò a ripetere le stesse cose per quarantacinque interminabili minuti, ricorrendo a citazioni pseudodotte, in una lingua che, diceva, essere latino. Finalmente, il “missa est” fu accolto con soddisfazione da tutti i presenti, mentre mio figlio concludeva con un canto religioso dolcissimo. La firma degli sposi e dei testimoni fu l’atto finale della cerimonia e ci preparavamo a lasciare quel santo luogo,
quando, dalla Transilvania, arrivò Dracula vestito da decano e pronunciò anatemi su coloro che avessero osato lanciare riso sul sacrato in ristrutturazione. Con la predizione di un proba-
bile incidente, tra le impalcature esterne, strabuzzando gli occhi sui presenti, scomparve.
- Ora faremo le fotografie – sussurrò mia figlia, abbracciandomi con affetto.
Ora sarebbe venuto l’imbarazzo di quale moglie scegliere per la foto di gruppo. La
generosa disponibilità di Angela e l’affetto di Daniel per la sorella mi spinsero a fare
gruppo con loro, ero sicuro che mia figlia avesse capito. Comunque, ringraziai Dio di avere due mogli soltanto, altrimenti sarebbe stato ancora più imbarazzante.
Sul sacrato, gli sposi rimasero bloccati nel corridoio tra due transenne, ma si difesero, con baci ed abbracci, come due moschettieri del re. Lo spettacolo dell’affetto di tanti amici mi fece bene al cuore, tanto che dimenticai ogni disavventura di quella mattinata.
Ci allontanammo, divisi in piccoli gruppi, avventurandoci tra le vie del centro storica, ma eravamo tutti diretti al Circolo cittadino, in via Rubichi. Ci accolse un ex convento dei Gesuiti, edificato alla fine del cinquecento ed adibito, successivamente, a sede giudiziaria per ordine di Giuseppe Bonaparte. All’interno, ci aprì le braccia un magnifico giardino con un alto porticato sulla sinistra, che si raccordava ad una magnifica fontana. Mi accomodai nella ultima cellula del portico, di fronte alla sala cinquecentesca, dove si sarebbe svolta la cena vera e propria, rallegrata da musici bravissimi. Attendevo, come gli altri, l’arrivo della sposa e godevo, intanto, della dolce frescura del luogo, quando lo vidi e … rimasi di sasso. Don Rincoglio si era materializzato, non so per quale magia, al mio tavolo e mi chiedeva se fossi io il padre della sposa. Volevo morire. Feci cenno di si e cercai con lo sguardo altri tavoli liberi, ma non ne vidi. Mi alzai un attimo per respirare ed una signora biondastra, amica di don Rincoglio si sedette al mio posto lasciandomi in piedi: era troppo. Ero o non ero il padre della sposa? Stavo per reagire alla mia maniera, quando mi ricordai che non potevo in quella meravigliosa circostanza turbare quella gioiosa euforia che dominava un po’ ovunque e mi accomodai su di un’altra sedia lì, vicino a don Rincoglio. Accadde quello che avevo previsto: il decano attaccò con le costumanze leccesi, il dialetto, il barocco, i greci, i pregi della città e di tante altre cose, finché non esaurii tutta la mia pazienza e gli gridai, in latino:
- Per Hercules, de filia mea loquemur! - (per Ercole, parliamo di mia figlia!)
- Brava ragazza, molto dolce – mi rispose e non pronunciò più una parola. A questo punto, chiesi a mia moglie di prendere il mio posto ed io mi accomodai vicino alla bionda rubasedie.
Iniziò la sarabanda degli antipasti: dagli ortaggi ai carpacci, ai formaggi, alla prosciutteria alle fritturine di paranza. Gradii molto le prime cose, ma poi mi fermai: non potevo più permettermi altro, mi sarei sentito male. Il decano era di buon appetito e non si perse una virgola di tutto quel ben di Dio. Volevo chiedere un caffè per digerire e godermi il fresco di quel giardino preparato in modo così maestoso, quando annunciarono la seconda parte della cena: quella sostanziosa. Mi venne un accidente: mi avrebbero ingrassato la figlia,
ma io ero fermamente deciso a non muovermi. Mia figlia ed i on suoceri mi costrinsero a sedermi al loro tavolo in quella bella sala cinquecentesca ed educatamente mi accomodai, ma non potei toccare nulla di quelle succulenti pietanze pugliesi, ma ne apprezzai gli odori e la preparazione. Mi passarono davanti dei primi piatti eccezionali, e si continuò con il buffet dei secondi e le verdure grigliate, finché non passammo in giardino, dove vennero serviti il gran buffet di frutta, dolci e gelati e la torta nuziale.
A mezzanotte, il decano andò via ed io desiderai fortemente di imitarlo: salutai mia figlia, esternandole ancora una volta la mia gioia e la soddisfazione per quella bella cornice che solo un grande amore aveva potuto motivare ed abbracciai mio genero con stima ed affettuosa simpatia. Salutai tutti gli altri parenti e mi diressi verso l’uscita, accompagnato dal mio primogenito, che si adoperò per il mio rientro in albergo. Alla fine fu un invitato ad accompagnarmi nei pressi dell’hotel Cappello e finalmente, alle una e quindici, nonostante i treni tagliassero il silenzio della notte, chiusi gli occhi pensando a mia figlia e mi addormentai con la sua immagine impressa nella mente. Morfeo mi raggiunse, mentre, con gli occhi chiusi, singhiozzavo come un bambino.
Franco Pastore
Salerno (Sa) – via Posidonia