'NA VERA SIGNORA
Prima di accingermi a scrivere questo righe ho riflettuto molto. Mi frenava l’eventualità che qualcuno avrebbe potuto farne un uso improprio e pruriginoso, frugando impudicamente nel mio intimo, ma anche e soprattutto perché avrebbe potuto ridere della forma letteraria balbettante. Non sono mai stata brava nel riempire un foglio bianco e ho sempre fatto una gran fatica a scuola per la prova scritta d’italiano e questo risultava essere un grave handicap nella esclusiva scuola cattolica di S. Restituta, predefinito attracco formativo e intellettuale del ceto medio-alto cui apparteneva la mia famiglia ma ormai il dado è tratto e m’impegno ad andare fino in fondo.
Mi chiamo Elisabetta, comunemente Lisa, e devo questo nome alla mia nonna paterna che morì, annegando in mare, poco prima che io venissi alla vita.
Mi reputo carina ma di una bellezza discreta, sufficientemente graziosa da reggere con dignità il confronto con le mie coetanee. Non sono però, come si suol dire, appariscente.
Sono minuta, tutto sommato ben proporzionata e ho un viso dai lineamenti delicati di cui vado fiera. Abito sulle colline napoletane nella villa a due piani, residenza della famiglia paterna sin dai primi anni dell’Ottocento. Nella zona, privilegiata da sempre, ovviamente non condividiamo con il resto della città il problema del sovrappopolamento.
Siamo in pochi, ci conosciamo tutti e facciamo parte di quella che era stata una delle aristocrazie più apprezzate in Europa. Questa condizione, permeata com’è di napoletanità, non ci provoca alcun tipo di ostilità preconcetta perché abbiamo ben cura di mantenere nel nostro “pedigree” : la signorilità. Nel Meridione in genere e nel nostro golfo in particolare la più grande onorificenza, più apprezzata dei cavalierati e dei commendatorati e anche di quello che resta dei titoli nobiliari, la più grande gratificazione viene dal sentirsi etichettare “Signore”.
“Chille è ‘nu vvere signore!”.
Il che significa che, come individuo, non facendosi scudo cioè di titoli e gradi, riesce a gestirsi con misura ottenendo rispetto e soprattutto tenendo in considerazione gli altri, a qualsiasi ceto sociale appartengano. Noi siamo stati educati con rigore a queste regole di vita.
I nuovi ricchi, quelli che con i soldi riescono a comprare tutto o quasi, hanno in questo il loro tallone d’Achille e sono facilmente riconoscibili e quindi tenuti ai margini.
In questa piccola zona i parchi sono rimasti tali nonostante la loro quotazione commerciale avesse potuto solleticare più d’uno a darli in pasto a quel saccheggio indifferenziato che, negli anni Cinquanta, ha cementificato il Vomero e le zone limitrofe. Come tutte le adiacenti, la nostra casa, aveva goduto dell’intuizione ambientale di una legge borbonica che impediva, sulle alture napoletane, la costruzione di nuovi edifici che si sviluppassero in altezza tanto da impedire ai preesistenti di godere della vista sul golfo. Un panorama da mozzare il fiato che in un certo senso mi ha impedito di valorizzare appieno le mete dei miei numerosi viaggi la cui bellezza veniva istintivamente raffrontata, soccombendo, a quella che ormai faceva parte del mio DNA e del mio orgoglio partenopeo. Sul davanti un gran parco, curato ora solo saltuariamente, e un portone, con in rilievo un paio di teste di leoni, cui si accede da due speculari rampe in ciottolato leggermente arcuate. Destinata alle famiglie patriarcali dei miei avi, che l’avevano occupata sempre per intero, ora sembrava spropositatamente inadeguata per noi quattro (mio fratello abitava ed aveva il suo studio in un bilocale a Piazza dei Martiri) e gran parte delle stanze erano del tutto inutilizzate. Mentre i miei genitori e mia nonna occupavano il primo piano io conservavo sempre la mia camera al secondo, da sola.
Un letto con la testiera di ferro a riccioli, abbastanza spigolosa e scomoda per poggiarvi la testa e le spalle quando non ero distesa, un ampio armadio d’epoca e una specchiera monumentale, con i bordi che presentavano segni d’usura, che rifletteva la mia intera figura anche quando mi esercitavo di nascosto in qualche passo di danza improvvisato.
Sulle mensole la mia collezione di pupazzi di peluche, circa trecento, ravvivava l’ambiente reso un po' cupo da una tappezzeria a fiorellini rosa che nel tempo si era ingrigita.
Nella parete di destra un enorme manifesto del film “Via col vento” e su quella di fronte un vecchio quadro di famiglia raffigurante il veliero che mio nonno, armatore, riteneva non avesse pari al mondo. Al di sopra del comodino alcuni quadretti, da me ricamati a punto croce, con buffi animaletti e con le mie iniziali in cirillico e poi sul comò una raccolta di boccettine di profumo che ho continuato sino ad oggi a racimolare nei negozi dei nostri fornitori nonostante la mia cronica allergia alla totalità di questi prodotti. Ricordo che dovetti rinunciare a una festa di carnevale perché, dopo essermi leggermente bagnata i lobi con una di queste essenze, mi ricoprii, nel giro di pochi minuti, di chiazze rosse e pruriginose in tutto il corpo.
Fui costretta a un ricovero urgente e a una profilassi mirata che si protrasse per una settimana.
Quella che in effetti abitava nella villa stabilmente per quasi tutto l’arco della giornata era mia nonna, coadiuvata dalle due cameriere, una delle quali in pianta stabile da noi da circa quarant’anni, che con piglio deciso dirottava allo svolgimento delle mansioni loro affidate.
Ho trascorso la mia infanzia e gran parte della mia giovinezza respirando a pieni polmoni l’atmosfera rarefatta dell’Istituto Scolastico gestito da suore, “cape ‘e pezza” come si dice a Napoli, in cui frequentavo la scuola al mattino e compitavo nel pomeriggio, e di quella surreale di mia nonna, già molto in là negli anni, che disconoscendo di fatto l’avvento della Repubblica, continuava a gestire la sua vita e a voler influenzare la mia come avrebbe fatto una gentildonna dell’alta aristocrazia di fine Ottocento.
La forma, l’etichetta e il galateo: per lei non esisteva nient’altro di importante nella vita.
Alta, molto alta per la media dell’epoca, segaligna, con due occhi di un azzurro chiarissimo (avevo avuto un gatto grigio con gli stessi occhi e ricordo m’impauriva) che sembrava non si accontentassero di guardare ma che cercassero di penetrarti, di leggerti nell’animo alla ricerca dei tuoi punti vulnerabili. Non ricordo di averla mai vista in vestaglia e men che mai in disordine: l’igiene, la pulizia, il terrore dei microbi. Sempre in tiro, con i suoi capelli a crocchia fermati da un grosso spillone d’argento, i suoi abiti lunghi e scuri alleggeriti molto discretamente da un candido colletto a crinolina e da un cammeo al collo fissato a un nastro di velluto nero. Il suo muoversi sempre con gesti misurati, mai un bacio, talvolta una lievissima carezza che aveva però tutta l’aria di essere solo una sporadica concessione. Credo che ritenesse di volermi bene ma che razionalmente questo dovesse essere il suo comportamento per esternarlo. Per lei ero la ribelle perché lasciavo cadere i libri che mi costringeva a tenere sotto le ascelle durante il pranzo, perché continuavo a dare del tu alla vecchia fantesca che mi aveva da piccola tenuta sulle ginocchia, perché odiavo i vestiti di velluto blu, perché continuavo a trattarla con grande familiarità...
Della presenza dei miei genitori ho invece solo un vago ricordo.
Mio padre, uomo molto affascinante e soprattutto consapevole della sua prestanza latina, perennemente in viaggio per affari da un capo all’altro del mondo, continuò a mietere successi amorosi incurante del fatto che se ne venisse quasi sempre a conoscenza.
Le rare volte che mi rivedeva ripeteva sempre il solito gesto di afferrarmi sotto le ascelle, lanciarmi verso l’alto per poi riprendermi con maestria e, per chetare il mio terrore, stringermi per un attimo al petto e schioccarmi un bacio in fronte; non mi stancai mai di sperare in qualcosa di meglio. Quando poi non ce la fece più a gestirmi come una palla di gomma si limitava al solito: “Ciao, come stai?... tutto bene, vero?...” Passava quindi oltre senza attendere la risposta che, per quanto mi riguardava, non sarebbe mai arrivata.
Mia madre invece, sfiorita innanzitempo e propensa ad una progressiva pinguedine, sembrava volersi consolare tentando la scalata alla presidenza di svariati enti benefici.
Bisognava vederla alle prese con gli scugnizzi, con i diseredati, con gli ex detenuti!!! Avesse riservato a me solo una minima parte di quello che sembrava un reale interessamento avrei toccato il cielo con un dito. Continuamente impegnata a organizzare pranzi, cene o lotterie di beneficenza scompariva alla mia vista addirittura per settimane.
Sono quindi cresciuta con un’angosciante sete d’amore il cui mancato appagamento mi portava a un altalenante e preoccupante susseguirsi di depressioni. Avevo cercato di venirne fuori con la collaborazione di Don Martino, celebrato predicatore e figura carismatica, che però si rivelò devastante con una frase che mi aiutò a precipitare più in basso: “Ti senti depressa? Questa è la naturale conseguenza del peccato!”.
Anche se era vero che questa mancanza di tenerezza aveva indurito il mio carattere e che risultassi riluttante a instaurare rapporti amichevoli purtuttavia non mi era affatto chiaro quali fossero realmente le mie colpe o i miei peccati.
C’era poi una frase in latino, che non ricordo nella sua versione originale, che campeggiava nel refettorio e che diceva più o meno: “Si ottiene qualcosa solo se lo si merita.”
Era colpa mia: non riuscivo a meritarmi una carezza...
Ero sempre a battermi il petto, a fare fioretti e penitenze colpevolizzata da ferrei insegnamenti e da diagnosi impietose. Poi entrai con il fiorire del corpo nella pubertà e i relativi fremiti portarono a percepire altre esigenze mentre rimaneva però dentro di me quel sedimento di frustrazioni che non mi permettevano di liberare il mio istinto. Era il periodo in cui inevitabilmente sbocciava l’attrazione per l’altro sesso. Se ne parlava di nascosto tra amiche e questa “scuola” parallela, piena di sentito dire o di frasi rubate da libri proibiti, formava il mio approccio al campo sentimentale o sessuale il più delle volte in maniera contorta, non testata scientificamente e soprattutto non praticata. Qualcuna riuscì a passare dalla progettazione alla sperimentazione e la testimonianza arricchì, in qualche modo, il nostro bagaglio.
Rimase però nell’aria l’ambiguità dell’eventuale comportamento.
Da una parte il labaro ben ritto delle “cose di cui non si doveva parlare e tantomeno fare”, di cui mi sentivo in qualche maniera la vessillifera, e dall’altro quello, molto più libertario e se vogliamo proletario, di “ogni lasciata è persa” .
Per le remore che ormai facevano parte del mio personale bagaglio non ebbi mai il coraggio di abiurare e passare al secondo plotone con la logica conseguenza che sono arrivata vergine al matrimonio ma naturalmente, senza cioè una gran voglia di non esserlo.
Il mio matrimonio...
Tutte le mie speranze le avevo delegate a quel nuovo evento.
Ci conoscevamo fin da ragazzi perché lui era il figlio di un amico di mio padre ed abitavamo a un centinaio di metri di distanza. Raramente avevamo giocato insieme nel parco perché i tre anni di differenza tra di noi erano difficili da colmare, a quell’età, per permettere divertimenti comuni e addirittura non ero neanche invitata a interpretare la degente, come si faceva con qualsiasi ragazzina capitasse a tiro, quando c’era il gioco della clinica. Pochi rimpianti, quasi sicuramente mi sarei rifiutata di accettare. Per la verità neanche lui veniva designato spesso come medico, imbranato com’era da una esasperata forma di timidezza, e non ci sapeva fare molto con le donne. Continuava a idealizzarle oltre ogni misura, ci fantasticava e si lanciava in iperbolici voli sentimentali. Quando tornava a terra qualcun’altro gliele aveva portate via.
Con me ebbe tutto il tempo di svolazzare...
Nessuno, in verità, mi aveva nel mirino e quando mi sfiorò la mano per la prima volta fu praticamente scritto che ci saremmo sposati. Gennaro, questo era il suo nome come tradizionalmente era scritto che fosse per i primogeniti della famiglia Caracciolo, era basso di statura, solo un paio di centimetri più alto di me, bel viso da pacioccone su di un corpo accettabile ma completamente disadatto a qualsiasi attività sportiva. Caparbio le aveva tentate tutte ma una innata scoordinazione dei movimenti lo rendeva goffo e non adatto alla competizione. Solo a cavallo se la cavava, sufficientemente, ma se la cavava.
Mite, poco propenso a competere sul piano fisico, aveva consumato le sue rivincite sui banchi di scuola. In qualsiasi tipo di studio eccelleva tanto da riuscire a laurearsi in poco più di quattro anni e mezzo in ingegneria chimica. Fu assunto immediatamente da una grossa industria andando a occupare un posto di tutto rispetto all’interno dell’azienda ma quando si trattò di passare dalla teoria all’esecuzione materiale delle proprie conoscenze di colpo si ridimensionò.
Per il matrimonio era stata approntata una cerimonia di gran gusto e stile con la presenza massiccia di tutta la società altolocata e un ricevimento raffinato al Circolo Canottieri, all’insegna del pesce pregiato più fresco, ricordato ancor oggi con commenti positivi da quanti vi parteciparono.Io sfoggiavo un rigoroso abito stile impero che evidenziava i miei pregi e minimizzava i difetti e che mi allineava perfettamente all’atmosfera che si era creata.
Partimmo poi per il viaggio di nozze in Cina.
Facemmo un bel po’ di giri turistici e consumammo, senza eccessivi entusiasmi, tutto quello che era previsto dovessimo consumare. Mi aspettavo una scintilla che potesse contagiarmi ma Gennaro non dimostrò di essere capace di accendere la miccia.
Dietro l’angolo, dietro quell’angolo che avrebbe dovuto celare la svolta della mia vita, non trovai questo balzo di qualità. Continuai ad abitare nella villa, al primo piano, sottoposto a un costoso restauro, e le atmosfere continuarono a rimanere le stesse. Ci fu un momento, uno solo, in cui intravidi, anche nel groviglio di attrazione e ripulsa che mi investiva, lo spiraglio per approcciarmi in maniera nuova, soddisfacente almeno al sesso.
Era estate, una notte torrida, le finestre spalancate e la brezza, l’abituale brezza ristoratrice, che tardava.Il ronzio di una zanzara, penetrante come un succhiello, interruppe quel sonno stentato ed accesi la lampada sul comodino. Accanto a me, nel letto, Gennaro non c’era.
Avrà provato a rincorrere il fresco sul terrazzo - pensai - e m’incamminai verso il salone.
Man mano che mi avvicinavo, però, percepivo sempre più nitidamente voci, sospiri e dei veri e propri gemiti e quando silenziosamente misi piede nel salone presi immediatamente coscienza di quello che stava accadendo. Gennaro sprofondato in una poltroncina di vimini e sullo schermo televisivo un groviglio di corpi nudi che praticavano il sesso come non avrei mai immaginato potesse accadere. Rimasi nell’oscurità, al riparo della tenda, a fissare il teleschermo sempre in bilico tra la decisione di scappare o, quella che più mi eccitava, di rimanere. Il culto del piacere che quelle immagini e soprattutto quelle voci emanavamo mi avvolgeva e soggiogava...
Un mondo sconosciuto, che non mi apparteneva ma verso cui non provavo, con meraviglia, una intransigente ripulsa e lì, nella penombra, rimasi per una mezz’ora.
Distesa sul letto poi non riuscii e non volli addormentarmi.
Aspettai il ritorno di Gennaro, ero in attesa che succedesse qualcosa... rimuginavo.
Infine ritornò, mi si distese accanto, e io finsi di dormire. Una mano mi sfiorò, feci finta di niente... mi accarezzò più insistentemente, non resistetti e mi girai verso di lui... Mi fu sopra.
Fu subito, però, un gioco scialbo, una deludente imitazione che esaurì fortunatamente in pochi minuti la sua carica lasciandomi una diffusa e acuta insoddisfazione. Forse così non può e non deve funzionare in un matrimonio e, come sempre nella mia vita, non ho ripetuto il tentativo.
Non siamo riusciti a mettere al mondo figli, dopo un primo tentativo conclusosi con un doloroso aborto, e ci siamo rassegnati subito senza chiedere la collaborazione di specialisti quasi avessimo un’inconscia paura di non saper donare al nascituro nulla di cui potesse essere fiero. D’estate ci spostavamo nella sua casa a Capri e il nostro ritmo di vita era ormai consolidato in abitudini e in rituali e per venticinque anni sono stata una moglie fedele, rigorosamente fedele, senza nessuna frustrazione.
Dedita, per educazione pluriennale, ai sacramenti non sono mai mancata alla funzione domenicale, dove mi recavo con Gennaro e, quando lui era al lavoro, m’impegnavo nel gruppo delle dame di carità di San Vincenzo de’ Paoli. Cercavo di tenermi informata, di partecipare alla vita di società, giocavo a bridge, andavo alle mostre, a qualche dibattito e talvolta mi sprofondavo nella poltrona davanti alla televisione. Non era quest’ultima la mia occupazione preferita perché, devo riconoscere, talvolta nel procedere degli sceneggiati o delle telenovelas viene esaltata una moralità dubbia ed un senso della famiglia che precipita sotto i magli di una crescente liberalità. Io me ne scandalizzavo, anche se erano solo fiction, ma sembravo la sola. La situazione ideale che si tenta di accreditare, in questi ultimi tempi poi, è quella della necessità, quasi terapeutica, del tradimento del marito o della moglie per salvare il matrimonio! Mio fratello, lo snob, l’antitradizionalista, quello dalle ampie vedute, continuava a sostenere che è veramente così che si salva una unione e io non ero assolutamente d’accordo.
- Si stuzzicano le gelosie, si dà una scossa!
- Ma guarda me, - gli dicevo io - guarda me e Gennaro. Siamo sposati da venticinqueanni e tutto funziona a meraviglia.
Allora faceva una smorfia, la sua solita smorfia, e diceva che nel mio matrimonio non c’era passione. E se non c’erano passione e complicità era come se non ci fosse vita coniugale: molto meglio metterci una pietra sopra. Io di questa passione ne ho sentito sempre parlare, da Santa Teresa a Lady Chatterley, ma sono convinta che sia proprio uno stato d’animo riservato a poche prescelte, a me sicuramente no. Sono andata, comunque, per due settimane da uno psicologo e poi ho smesso perché credo sia una truffa, una sauna costosa in un groviglio di parole. Sosteneva, con la presunzione delle sue certezze-puzzle, che, nel mio caso, ci fossero tutte le premesse per un tradimento e, siccome questo specialista era un amico di famiglia, io ho subodorato che quella non fosse una conclusione derivante dall’analisi ma che fosse supportata da qualche indizio comprovato, da qualche dritta che gli era venuta dall’ambiente.
In prima battuta, indispettita, ho accantonato recisamente l’ipotesi ma poi, pian piano, il sospetto ha cominciato a farsi strada.
- E se fosse vero? se Gennaro veramente mi tradisse?
La domenica successiva ero in ginocchio davanti all’immagine della Madonna di Pompei e mi sono scoperta a domandarle, tra le preghiere, se lo ritenesse possibile...
Come se avessi avuto una risposta rassicurante per un po' di tempo cessai di tormentarmi ma poi ripresi a psicoanalizzarmi. In effetti corrispondevano alla realtà i sintomi che lo psicologo aveva cercato di evidenziare ottenendo la mia chiusura a riccio. Era vero che da molto tempo Gennaro non mi baciava più sulla bocca con passione e che i nostri rapporti erano sempre più frettolosi e radi ma era pur vero che non è che fosse stato molto diverso prima...
C’era, si, quella volta che avevamo tentato...
Adesso si era solo un po' affievolita...
Non dicono che è nella norma?...
A questo punto ero nel guado; ne avrei dovuto parlare con Gennaro anche se con lui questo gran parlare non c’era mai stato. La logica lo pretendeva e sarebbe stata la soluzione più ovvia.
In effetti, durante le notti insonni che seguirono, più di una volta mi ero ripromessa di svegliarlo e di parlarne fuori dai denti ma la voce rimaneva in gola e finivo per rigirarmi sul fianco. Mi era moralmente tanto lontana l’ipotesi del tradimento che mi sembrava di rischiare il ridicolo solo nell’accennarlo. Poi non mi sembrava corretto, senza alcun indizio, rivolgere un’accusa simile ad un uomo educato, carino, che non aveva mai dato adito al alcun sospetto.
C’era stata un’occasione in cui, per la verità, avrei potuto approfittare di una sua gaffe per cogliere la palla al balzo ma non riuscii a cogliere l’attimo. Aveva tentato di farmi tornare alla memoria quella paella che - diceva - avevamo mangiato insieme all’Hotel Miramare di Formia.
Non mi risultava che noi fossimo stati insieme a Formia, all’hotel Miramare a mangiare la paella e glielo contestai. Lui dapprima sostenne la sua versione poi si contraddisse e quindi ammise di aver mescolato varie circostanze diverse e tutto fini lì. L’insonnia però continuava a perseguitarmi e a mettermi alle strette per cui decisi di prendere l’iniziativa. In breve una mattina, dopo l’ennesima notte in bianco, sono balzata giù dal letto e ho telefonato a mio fratello dandogli un appuntamento a un bar del centro dove soleva prendere il secondo caffè della sua giornata.
“Ma insomma, cosa c’è di tanto urgente da non poter aspettare?”
“Scusami... Non dormo da giorni per l’angoscia e volevo parlartene.“
“Prendi anche tu il caffè, vero?”
“Si.”
“Ci porta due caffè?”
“Senti, Carlo, mi sento in fibrillazione come mai sono stata. A causa di Gennaro. Debbo sfogarmi. Se non ne parlo con te con chi ne parlo? anche se tu sei amico, più che amico di
Gennaro... Ma dopotutto e soprattutto sei mio fratello. Tu lo conosci bene, più di qualsiasi altro. E se lui mi tradisce tu...”
Non mi ha fatto finire la frase perché ha di colpo piegato il capo e ha cominciato a parlare evitando accuratamente di incrociare il mio sguardo.
“Sono stordito... Non potevo mai immaginare che l’avessi scoperto...”
Io lo guardavo inebetita.
Non capivo niente, non capivo un accidente e lui non mi diceva niente che mi aiutasse a capire.
“Tu sei un‘anima devota, Lisa... Sei una moglie e una sorella esemplare, sei però una donna con un’ottica diversa, poco incline a transigere sulla ineluttabilità di certi ardori, come li definisci tu, anomali. Ammesso sempre che qui possa valere una regola universale che stabilisca che cosa si deve o non si deve fare per venire incontro ai propri impulsi.
Qualche volta ho cercato di fartelo capire ma non sono riuscito a mettere in sintonia la tua assoluta ingenuità con la mia volontà di essere chiaro. Ora che ti si è squarciato il cielo, Lisa, ora finalmente avrai capito...”
Assolutamente niente, continuavo a non capire niente se non a prendere coscienza che lui conoscesse già da tempo la sbandata di Gennaro e che, in un certo senso, la giustificasse o addirittura fosse dalla sua parte.
- Ma che razza di fratello sei, Angelo? si era a questo punto e non mi hai detto niente?
Girò il viso e mi fissò confuso, in grande difficoltà, per cui anche un suo estremo tentativo di balbettio fallì goffamente. Mi alzai e me ne andai di scatto ma nel varcare la soglia mi resi conto di aver abbandonato la borsetta sulla spalliera della sedia. Mi faceva ripulsa ritornare da lui ma mi feci forza; gli arrivai alle spalle senza che se ne accorgesse.
Parlava al telefonino non tanto sottovoce da impedirmi di ascoltare.
- Pronto Gennaro? Sono Carlo. E’ successa una cosa che non avevamo previsto. Mia sorella mi ha voluto assolutamente incontrare stamattina dicendomi poi di aver scoperto la nostra relazione. No, non mi sembra che l’abbia poi presa così male. Mi è sembrato piuttosto che fosse imbestialita per il fatto che glielo avessimo tenuto segreto fino ad ora...
Mi ero ripromessa, signor giudice, di scrivere solo un memoriale ma mi accorgo di essere andata ben oltre, al limite di una vera e propria autobiografia. Il silenzio della mia cella ha favorito questa lunga confessione che spero sia utile a lei e soprattutto a me impedendovi di sezionare, con sadismo, in tribunale la mia intimità per poi sacrificarla su quell’altare che voi chiamate verità. Questi fogli mi consentiranno, durante il processo, di avvalermi del mio diritto di non rispondere senza intralciare il percorso della giustizia. Per quanto riguarda i dettagli del doppio assassinio confermo che sono stati trascritti correttamente nel verbale che contiene la mia confessione e che ho controfirmato. Credevano, signor giudice, di non dovere neanche più essere vincolati ad un minimo di buon gusto e di pudore: li ho scoperti avvinghiati nel mio letto!
Su questo ‘na vera signora non è disposta a transigere!
Non so se possa costituire un’attenuante e non m’importa granché. Quello di cui mi pento è però di non aver effettuato prima quello che, dopo l’assassinio, ho freddamente messo in atto. Sono andata in auto in via Caracciolo e ho adescato, in segno di spregio e vendetta, uno sconosciuto.
Ho raggiunto però, signor giudice, in quell’occasione e per la prima volta in vita mia, l’orgasmo! Se lo avessi fatto prima, Gennaro e Carlo sarebbero ancora vivi ed io una sgualdrina libera e soddisfatta.
Come sempre ho sbagliato i tempi. Distinti saluti, Elisabetta Filangieri ( detta Lisa ).
Enzo napolitano