NICOLA, PE' CAMPà
Prima o poi, al massimo nello
spazio di due o tre giorni, ci si rincontra tutti a Caserta.
La città ancora oggi non è
molto estesa ma negli anni cinquanta-sessanta, quelli di Nicola e prima della
colata indiscriminata di cemento, lo era ancora di meno e le strade del
passeggio che intersecandosi formano un’elle, con terminali alla villa
comunale ed all’incrocio con Via Colombo, erano l’abusato punto di ritrovo
per tutti o quasi gli abitanti.
Ogni pomeriggio fino
all’imbrunire si passeggiava, ci s’incrociava e si passava in rassegna, su
questa passerella consolidata, l’umanità che condivideva il nostro
provinciale modo di vivere.
Nicola era un personaggio
tipico, con un peculiare connotato: appariva e spariva senza un nesso logico, in
modo imprevedibile.
Nessuno lo vedeva più in giro e
lui si volatilizzava nel nulla; per ricomparire poi con la stessa modalità.
Sempre a corto di soldi, con il
suo abituale e datato abito a doppio petto grigio scuro e una cravatta
impataccata in modo uniforme, riappariva a sorpresa riciclato in una nuova
attività. Imprevedibile come il moderno “gratta e vinci” che non sai mai
cosa si nasconde sotto quella pellicola argentata.
C’era il momento in cui
s’improvvisava supporter di un partito politico (magari dopo esserlo stato di
quello antitetico) e quindi lo si vedeva distribuire con foga volantini e
incollare manifesti, il momento in cui ti proponeva l’affare del secolo,
quello in cui appariva, inerpicato su di un’impalcatura, intento a dipingere
una facciata, quello in cui con un improvvisata bancarella vendeva castagne
arrostite, e il tutto come se avesse l’obbiettivo di sorprenderti mentre
invece era sempre aggrappato al tentativo di raggranellare qualche spicciolo.
Con un po' di fantasia si poteva
configurarlo come un precursore della flessibilità e mobilità sul lavoro.
Quando spariva però, spariva
per davvero.
Nessuno era mai riuscito a
cavargli di bocca il segreto, nessuno riusciva a stabilire dove andasse.
Se glielo si chiedeva, sibillino
ondeggiava le mani sulla testa quasi a voler indicare una località lontana e un
misterioso impegno che esigeva un totale riserbo.
Qualche voce, mai comprovata, lo
indicava come ospite periodico del locale carcere mandamentale ma erano e
rimanevano solo maligne supposizioni anche perché gli si riconoscevano piccole
furberie ma mai malefatte evidenti.
Del resto l’alone di mistero
che circondava il suo dileguarsi improvviso autorizzava le ipotesi più
disparate e bizzarre che arrivarono persino a supporre la sua appartenenza ad
una rete di spionaggio.
Nicola continuava comunque a
consolidarsi come caratteristico personaggio di quegli anni con quella sua
figura tozza, il naso aquilino e i capelli lunghi, ossessivamente lucidi e
tenuti a bada da una brillantina a buon mercato.
Fuori da ogni canone il suo
gesticolare...
Noi meridionali riusciamo
difficilmente a tenere a bada le mani; ci aiutano a non sfogliare continuamente
il vocabolario alla ricerca del termine più appropriato.
Con le mani riusciamo a
comunicare anche i concetti più difficili ma Nicola con le mani pretendeva di
far poesia e quell’ondeggiare delle dita nell’aria somigliava moltissimo,
ovviamente senza il relativo pathos, a quello ispirato di un gran direttore
d’orchestra con la differenza che il messaggio risultava ermetico ai più e la
comunicazione nulla.
Era obbligato ad usarle quelle
mani, e con esse un dialetto strettissimo perché la sua scolarità si era
fermata alla terza elementare e con la lingua italiana sembrava avesse un conto
in sospeso e la maltrattava con diabolica continuità.
Gli strafalcioni che riusciva a
tirar fuori avevano dell’incredibile tanto che, ora, è persino difficile
ricordarli.
Ho impressa nella mente solo una
chicca tratta dal suo vasto repertorio e raccolta nei pressi di una merceria
quando, uscendone, aveva esclamato: “Guagliò, nun se po' fa’. ‘E cazette?
m’ha chieste ‘na cifra gastronomica!”
Una delle sue peculiarità più
significative era rappresentata da un arrancare velocissimo come se fosse
inseguito da mille impegni e ossessionato dalla mancanza di tempo per
realizzarli.
Ci passava fulmineo accanto,
anche se non mancava mai di salutare vistosamente.
Non è che lo conoscessimo più
di tanto ma Nicola salutava tutti, quindi anche il nostro gruppo d’amici per
la pelle, per non lasciarsi chiusa dietro nessuna porta.
Avrebbe potuto aver bisogno,
credo pensasse, di uno qualsiasi di quelli che incontrava e non voleva incappare
in un “Ma chi ti conosce?” che chiudesse prospettive.
Misterioso anche il suo rapporto
con le donne, se mai ci fosse stato.
Eravamo nell’agosto del ‘58
e da qualche settimana Nicola era di nuovo svanito nel nulla; non che ce ne
allarmassimo più di tanto ma era un fatto di cronaca che registravamo.
Ce lo ritrovammo una sera sul
teleschermo, nell’edizione del telegiornale, in cima ad una gru e circondato
da un nugolo d’operai, che digiunava, per protesta e in quella scomoda
posizione, contro il licenziamento di trenta dipendenti posto in essere da
un’impresa edile.
Raggiunto dal giornalista e
intervistato espose, con quel suo misto di gestualità e italiano
approssimativo, le motivazioni della rimostranza ma il fatto surreale di questa
storia era che Nicola non figurava tra i licenziati per il semplice fatto che
non era mai stato assunto da quella ditta.
E divenne un caso di cui si
occuparono le cronache locali.
Riapparve all’improvviso,
dieci giorni dopo, sul campo di calcio dell’oratorio salesiano.
In quel campo che misurava
ottanta metri per trenta si disputavano contemporaneamente una ventina di
partite di calcio.
I perimetri dei terreni di gioco
erano ricavati virtualmente sia in maniera orizzontale sia verticale, in alcuni
casi anche trasversalmente; gli oleandri che delimitavano il terreno fungevano
da pali delle porte.
Una miriade di palloni, ognuno
rincorso da una decina di calciatori, cinque per squadra, ballonzolavano
scomposti senza che si creassero intralci macroscopici o scambi d’obbiettivi
tra i contendenti.
Un miracolo quotidiano (eravamo
del resto in terra sacra...) che si ripeteva all’insegna dell’esaltazione di
un football casalingo.
Nicola fece il suo ingresso sul
campo, si portò alla bocca un
fischietto e lanciò un trillo.
- V’arbitro io!.
Ed indicò il nostro gruppo.
Un arbitro? e che ce ne facevamo
di un arbitro?
Il nostro gioco era regolato da
quella che si poteva definire un’ingiustizia sommaria: chi aveva più voce e
forza si appropriava del tiro di punizione o di quello di rigore, le proteste
duravano poco perché avrebbero rubato tempo al divertimento, e ci si rigettava
quindi a capofitto nella mischia rinvigoriti dall’adrenalina che avevamo
accumulato.
- Tenite mente a me, v’arbitro
io! Palla al centro!
Non c’era un sensato motivo
per esserlo, ma eravamo tutti in soggezione e ci adeguammo.
Il gioco non fluiva più con la
solita scorrevolezza, spezzettato com’era da trilli improvvisi e successivi,
ma alla fine, con cinque ammoniti e uno espulso, il dodici a dodici ci parve un
risultato equo e gratificante.
A questo punto Nicola ci convocò
al centro del campo e ci parlò.
Non ci avevamo fatto caso prima
ma sotto i soliti pantaloni lisi, non calzava le sue solite scarpe ciabattate -
con la suola che in più parti aveva divorziato dalla tomaia - ma scarpette da
calcio, delle autentiche scarpette da calcio, con la pelle che tradiva un annoso
curriculum, ma originali, con i tacchetti e la punta tonda e corazzata.
L’oggetto dei nostri sogni ai
suoi piedi. Ci chiedevamo come lui potesse poiché nessuno di noi, con famiglie
borghesi alle spalle, era così bene equipaggiato.
Dichiarò, con voce solenne, che
avrebbe formato con noi una squadra e che, sotto la sua esperta guida, avremmo
vinto il campionato regionale cui intendeva iscriverci.
All’equipaggiamento avrebbe
provveduto lui, personalmente.
“Purtate due foto, s’anna
mettere ‘ngoppe ‘e cartellini.”
Ovviamente eccitati provvedemmo
e, dopo due giorni, eravamo in possesso della parte del nostro cartellino su cui
spiccavano la foto, i dati anagrafici e la firma sottostante.
Le altre metà rimasero in suo
possesso racchiuse in una busta color rossiccio.
A Nicola era stato affibbiato un
nomignolo che nessuno di noi osò mai pronunciare per buon gusto e soprattutto
per paura di reazioni.
Era chiamato “Nicola ‘a
ciuccia” che in dialetto significa letteralmente l‘asina.
Quali fossero le motivazioni o
l’etimologia dell’epiteto non ci fu dato sapere anche se intuivamo che fosse
riferito alla sua capacità d’impegnarsi alla morte, o fingere come una mula
questa attitudine ma c’era un evidente dispregio insito nel termine che forse
nascondeva dell’altro.
Ci diede appuntamento in un
campetto della prima periferia, abbandonato in attesa che vi fosse costruita una
clinica, e questa volta si presentò, con una tuta sbiadita e rattoppata, in
veste d’allenatore di calcio.
“Tu tiene ‘a faccia di une
ca nun segna mai gol - disse a Michele, il nostro goleador- e quindi mi fai ‘u
centromediano pecché si’ luonghe e mi sierve ‘n difesa!” .
E notando lo sguardo
improvvisamente triste dell’interessato aggiunse:“Per ficcarla dentro ce sta
isse!” ed indicò Gianni, un marcantonio di tutto rispetto che aveva un conto
aperto con tutti gli scatti prolungati.
Si dilungò nell’assegnare gli
altri ruoli (aveva stabilito, nel frattempo, che avrebbe giocato lui in quello
di terzino destro) e poi mi guardò fisso negli occhi e sibilò: “A te ci
pens‘io.”
Il mio ruolo era quello di
portiere che non amavo particolarmente ma che restava abitualmente sguarnito,
non esercitando su di noi un marcato fascino.
“Nun si’ male - mi disse -
ma a sinistra non ti tuffi, è overo? ”
In effetti era vero; chiudevo
sempre l’angolo di sinistra per potermi poi lanciare sul mio lato preferito
che era quello di destra.
Mi posizionò al centro della
porta, mise la sfera su un mucchietto di vestiti sulla mia sinistra e poi ordinò:“Tuffete
e valla a piglià!”
Facile a dirsi; un affare è
farlo istintivamente nel corso della partita, nella foga del gioco, e un’altra
a freddo con una preventiva valutazione del danno fisico che avrebbe causato il
pietrisco disseminato dappertutto.
E così trascorsero alcuni
minuti con il suo “Vai !” cui non seguiva se non la mia finta del tuffo sino
a quando, vedendolo avvicinarsi e temendo chissà che cosa, mi lanciai.
Due ore a massacrare l’anca
sinistra con questo esercizio harakiri mentre ossessivamente mi ripeteva che il
portiere deve fare come “‘na zoccola”.
Confidavo si riferisse alla
velocità del ratto nell’appropriarsi del cibo e non alla versione dialettale
malevola utilizzata per definire le donne di malaffare, nell’immaginario
collettivo sporche e apportatrici di malattie.
Alla fine dell’allenamento
annunciò:“Domenica ‘iucamme fore casa! Inte ‘o campionato ‘e seconda
divisione.”
Fuori casa? e dentro, dove
avremmo giocato quando ci toccava farlo in casa?
Gli piaceva circondarsi di
misteri e non rispose.
La domenica alle dodici e trenta
eravamo davanti alla Flora, uno dei giardini di palazzo Reale, emozionati e
impauriti ma impegnati a stemperare il nervosismo masticando chewing gum.
Lo avevamo visto fare ai
calciatori professionisti e scimmiottandoli credevamo di acquisire una solida
credibilità.
Dopo una mezz’oretta fummo
raggiunti da un pullman stracarico di tifosi che agitavano bandiere a strisce
biancoverdi.
La scritta che campeggiava sulla
fiancata ci notificò finalmente il nome della squadra cui appartenevamo.
“Formicola”: eravamo
l’undici del Formicola.
O per meglio dire i nove
undicesimi della squadra perché gli altri due erano indigeni del paesino di
duemila abitanti, prettamente agricolo che, situato in nella valle del Volturno,
distava circa una ventina di chilometri dal capoluogo.
Insomma Nicola ci aveva
letteralmente venduti a quella società e aveva incassato il relativo prezzo
senza minimamente interpellarci, fidando sul nostro entusiasmo e sulla
gratificazione che poteva derivarci dal giocare in un campionato dilettantistico
ufficiale.
Di questo ci rendemmo conto solo
dopo qualche tempo, quando incominciammo a prendere dimestichezza con le regole
federali.
Di fatto avevamo avallato
l’operazione consegnandogli, senza nulla pretendere, la metà del cartellino
controfirmata.
La nostra salita sull’autobus
fu salutata da festosi applausi, da grosse pacche sulle spalle e naturalmente da
una curiosità morbosa tesa ad accertare, per lo meno a prima vista, la
consistenza atletica dei calciatori che avrebbero difeso l’onore della società
del cuore.
Fummo costretti a stringere
tutte le mani che venivano stese e a sottostare ad un fuoco incrociato di
domande.
Ci volle poco a essere coinvolti
negli eccessivi entusiasmi campanilistici presenti anche in quelle realtà
minori.
La notorietà casereccia: un
ruolo minimale ma gratificante.
Un gruppo di ragazzi e ragazze,
costretti in piedi per farci posto, intonarono il classico “Oi vita, oi vita
mia...” e altri canti tipici della tifoseria e si continuò con questa
“caciara” sino alle porte del paese ospitante.
Avremmo giocato la prima partita
sul campo del Casal di Principe. Per chi non avesse dimestichezza con questo
nome, reso tristemente famoso da fatti di camorra, non può immaginare che cosa
rappresentasse nelle nostre supposizioni quella località dove lo Stato è
latitante da sempre.
Sede incontrastata dei clan di
malaffare, nel cuore dei Mazzoni, luogo di confino per la criminalità durante
il Ventennio, Casal di Principe viene ricordata anche per la consolidata
tradizione del dono di una pistola da parte del padrino al cresimando; una vera
e propria culla di soprusi e violenze.
Sandokan, tanto per intenderci,
il boss camorrista che ha tenuto in scacco per un ventennio le forze
dell’ordine, era figlio e simbolo di quella terra con il più alto tasso
annuale d’omicidi.
Quando scendemmo dal pullman
eravamo letteralmente terrorizzati.
I cori erano cessati da tempo e
ci dirigemmo verso gli spogliatoi con le facce scolpite in sorrisi stereotipati,
intesi soprattutto a edulcorare un atteggiamento che ci aspettavamo aggressivo.
Nel chiuso dello stanzone che ci
fu riservato il magazziniere ci fornì di tutto l’equipaggiamento nuovo di
zecca, comprensivo delle fatidiche e sognate scarpette con i bulloni.
Ci fu poi il discorsetto di
prammatica del presidente, sindaco decennale del paese, che ci diede il
benvenuto, ci invitò a tenere alto il vessillo della società e infine tenne a
precisare che l’obbiettivo di una vittoria, nella partita d’esordio, non
poteva essere barattato con le garanzie d’incolumità.
C’erano tutti gli ingredienti
per sommare emozione a sgomento!
Seguirono altre parole di
circostanza da parte dei vari esponenti della società, nessuno dei quali volle
rinunziare al suo pistolotto, e alla fine uno dei cinque che si spacciavano per
allenatori varò la formazione ufficiale e una pseudo tattica da adottare.
In verità non c’era stato
bisogno di una vera e propria selezione: eravamo solo in undici e quello che
avrebbe dovuto essere il dodicesimo si aggirava con una vistosa ingessatura al
braccio.
Nicola, in tutto questo, era
rimasto quietamente in disparte salvo poi, quando stavamo per entrare in campo,
a precisare:
- Voi fate quel che dico io!
Gli spalti erano gremiti e ci fu
anche qualche botto lanciato in campo che ci fece sussultare.
Ed iniziò l’incontro più
incredibile cui mi sia toccato partecipare.
Dopo pochi minuti il nostro
centromediano, ex bomber, dalla nostra metà campo si liberò della palla
affibbiandole un calcione poderoso e questa schizzò in avanti inarcandosi in
una traiettoria diabolica che la portò ad insaccarsi nel sette della porta
avversaria con il portiere che, piazzato a metà dell’area, rinculando
velocemente era inciampato e finito lungo disteso per terra.
Ci guardammo tutti stupefatti;
nessuno festeggiò com’era lecito attendersi e poco mancò che ci rivolgessimo
al pubblico per chiedere scusa.
Non arrivò nessuna raffica di
mitra e proseguimmo.
La reazione non tardò a venire:
l‘ala sinistra avversaria s’involò lungo la linea laterale, strinse
minacciosa verso l’area e Nicola pensò bene di affrontarla con un’entrata a
piedi uniti.
Il giocatore si rotolò
dolorante per qualche metro e quando tirò giù il calzettone fu chiaro che i
tacchetti gli avevano provocato una lacerazione di non poco conto.
Senza ritegno ci rivolgemmo a
Nicola, gli urlammo di tutto mentre l’arbitro, nonostante il fallo fosse
avvenuto ampiamente fuori dalla zona prevista, indicava deciso il dischetto del
rigore.
Avevo deciso di non muovermi, se
avessi potuto me ne sarei andato, e quando il centravanti prese la rincorsa
chiusi gli occhi.
La palla, calciata
violentemente, colpì la traversa, rimbalzò sulla mia schiena e uscì sul fondo
tra una valanga di fischi.
Avevo riaperto gli occhi nel
momento dell’impatto, giusto il tempo per seguire la sua malaugurata
traiettoria finale.
Nei minuti successivi non corsi
nessun pericolo perché gli avversari non riuscivano ad elaborare un’azione
decente e trascorsi il mio tempo in assoluto ozio mentre la palla, in un ping
pong snervante, stazionava nel centro campo tra i fischi del pubblico.
Mi proiettai per la verità una
volta fuori dall’area ma per soccorrere, servilmente, un avversario che si era
letteralmente sgambettato da solo cadendo malamente.
Un gesto non apprezzato come
speravo ma che fu anzi sottolineato da un bercio proveniente dalla tribuna:“Ma
lascialo morire per terra quel brocco!” .
Alla fine del primo tempo
vincevamo ancora per uno a zero e ci rifugiammo, è il caso di dirlo, negli
spogliatoi.
Il solito tè caldo, qualche
altro invito alla prudenza e si ricominciò.
Niente, non succedeva proprio
niente e già una gran parte del pubblico abbandonava, deluso, gli spalti.
A dieci minuti scarsi dalla fine
la partita si animò improvvisamente.
Su di una palla alta che mi
veniva incontro innocua feci alcuni passi in avanti segnalando a gran voce la
mia uscita ma Nicola inventò una prodezza balistica da campi della serie
maggiore.
Scattò in alto, s’inarcò
armoniosamente ed effettuò una spettacolare rovesciata che portò il pallone,
fuori dalla mia portata, a insaccarsi violentemente per il più incredibile
degli autogol.
Piombò pesantemente a terra e
fu sommerso immediatamente da tutti gli avversari che lo festeggiavano.
L’uno a uno finale fu salutato
con sollievo dai residui tifosi, dalla nostra dirigenza e credo anche
dall’arbitro.
Sapemmo infatti, dopo, che,
durante l’intervallo, gli era stata portata un’aranciata e che per stapparla
era stata utilizzata, in sua presenza, l’estremità del calcio di una pistola
calibro trentotto.
Nicola, come sempre, non solo
non fornì spiegazioni convincenti per l’errore commesso, ma ci zittì
portandosi l’indice alla bocca.
I salamini piccanti che ci
distribuirono a fine incontro erano un insolito ma programmato premio partita.
Quando successivamente vincemmo
apparvero caciotte, soppressate, quarti di prosciutto e il Sabato Santo
costolette d’agnello.
Per la prima partita in casa si
effettuarono festeggiamenti doppi.
C’era la concomitanza della
partita con l’inaugurazione del campo di calcio ricavato in un terreno incolto
nei pressi della scuola.
Alla sua realizzazione aveva
partecipato attivamente la gran parte degli abitanti del paese (le reti erano
state addirittura realizzate dalle donne del circolo parrocchiale) e il terreno
di gioco, con le perfette righe in calce viva che lo delimitavano, accuratamente
innaffiato, era pronto ad ospitare le nostre imprese sportive.
Tutto come si conveniva: la
benedizione del parroco, il discorso ufficiale e la banda.
Ci volle però poco, bastò il
palleggio di riscaldamento, per rendersi conto del macroscopico errore che era
stato compiuto nella realizzazione dell’impianto: il campo non era livellato.
La parte a monte era nettamente
più in alto dell’altra e il pallone, senza essere calciato, tendeva a
scivolare, come su di un piano inclinato, verso la porta a Sud.
Un attimo di smarrimento e non
ci rimase che concordare subito una contromossa.
Convenimmo che la scelta della
metà del campo in cui schierarci, a questo punto, rivestisse una importanza
cruciale poiché era fondamentale occuparne la parte superiore nel secondo
tempo, quando la stanchezza cominciava a farsi sentire, e utilizzare il terreno
in discesa per avvantaggiarcene.
Gli avversari, con le gambe
appesantite dai primi quarantacinque minuti, avrebbero trovato un ostacolo in più
e noi ne avremmo approfittato ma tutto questo gran programmare doveva fare i
conti con l’imponderabile: il lancio della monetina da parte dell’arbitro.
Non so cosa successe, se ci
fosse qualche trucco o ci fosse di mezzo, come si sussurrava, una fattucchiera,
ma Nicola, ovviamente capitano della squadra, scelse sempre il verso della
monetina che gli concedeva il diritto di scegliere il campo; in tutte le partite
interne del nostro campionato.
Quella partita, la prima partita
in casa, la vincemmo per quattro a zero.
Fummo fotografati in tutte le
pose, in tutte le azioni e se si fossero messe una vicina all’altra le
immagini si sarebbe potuta rivedere, come ad una moviola, la partita secondo per
secondo.
Ho ancora nel cassetto una foto,
diciotto per ventiquattro, con la squadra al gran completo - Nicola naturalmente
al centro con la sua bandana rossa - con la scritta, in una calligrafia
d’altri tempi rotondeggiante e pomposa, che recita: “Ai gloriosi cadetti
dell’US Formicola nel giorno del loro memorabile trionfo!”.
Il campionato proseguì tra alti
e bassi ma in casa le partite, puntualmente, le vincemmo tutte.
Ci fu una domenica che,
incredibilmente, entrammo in campo in nove e giocammo così per circa venti
minuti.
Era accaduto che il nostro
centravanti aveva adocchiato una ragazza del luogo, aveva accertata la sua
disponibilità, e per non perdere l’occasione l’aveva trascinata nel bosco
sulla collina e impegnato nel suo amoreggiare aveva perso la cognizione del
tempo non presentandosi al campo in orario.
Nicola, non si sa come, aveva
intuito tutto e si era lanciato alla sua ricerca.
All’ora stabilita nessuno dei
due era disponibile e quindi, dopo aver tentato di tergiversare con l’arbitro
e in mancanza di riserve, fummo costretti a scendere sul terreno di gioco a
ranghi ridotti.
Quando finalmente si unirono a
noi, Gianni, il nostro attaccante, aveva un vistoso ematoma sotto l’occhio
sinistro sottoscritto da una firma inconfondibile.
Avevo dimenticato di dirlo ma
Nicola, per un certo periodo, aveva fatto anche da sparring partner al campione
europeo Palermo, gloria della boxe casertana, e pur subendo gragnole di pugni,
qualche diretto dimostrava di saperlo tirare.
Ci rendemmo subito conto di non
poter far affidamento sulle capacità balistiche del nostro goleador, che si
aggirava faticosamente nella zona a lui riservata, ma in compenso, ruzzolando
goffamente non appena fu spintonato dal terzino, riuscì a procurarci il calcio
di rigore che sbloccò la partita.
Come al solito dilagammo nel
secondo tempo, in discesa in tutti i sensi, e vincemmo per tre a zero.
Il premio partita di Gianni fu
“congelato” da Nicola che, in questo modo, si portò a casa due caciotte.
Fu a questo punto del campionato
che a Nicola, vero e proprio antesignano, balenò un’idea che solo da pochi
anni è attuata in tutto il panorama dello sport italiano e mondiale.
Convinse un allevatore di maiali
della zona a sponsorizzarci e sulla fiancata del pullman e sulle nostre
magliette comparve, a caratteri cubitali, la scritta “Norcineria Cuccaro”.
Tentammo di opporci ma ci allungò
duemila lire a testa, che a quei tempi per noi rappresentavano una fortuna e,
sia pur a malincuore, cedemmo.
Non tutti gli spettatori
all’inizio associarono quel termine, che è poi tipicamente romano, ai maiali,
ma bastò poco perché ne scoprissero il significato e, da allora in poi, in
tutti i campi in cui ci presentammo, eravamo accolti da grugniti o da doppi
sensi grevi ed irriferibili.
Decidemmo di chiedere la
rescissione del contratto la qual cosa avrebbe dovuto comportare però la
restituzione della somma che, ovviamente, nessuno possedeva più ed allora
optammo per la modifica della scritta.
Diventammo quelli del
“Salumificio Cuccaro”: uomini sandwich ma perlomeno dignitosi.
Non vincemmo il campionato ma ci
classificammo onorevolmente terzi e, da una squadra che era nata in un paio di
giorni, non si sarebbe potuto realisticamente pretendere di più.
Se ne sarebbe riparlato, magari,
a settembre inoltrato.
Nicola scomparve di nuovo e
questa volta per tre mesi.
Si rifece vivo, addirittura come
tedoforo, alla fine d’agosto.
C’era da festeggiare il
centenario della costruzione di un Santuario dedicato alla Madonna e il priore
aveva organizzato una staffetta che avrebbe dovuto portare da Pompei a Caserta
una fiaccola accesa alla fiamma della lampada votiva, perennemente ardente,sotto
la venerata immagine della Madonna nella basilica, a lei dedicata, nei pressi
degli storici scavi.
Ignoti, come sempre, gli
stratagemmi che aveva messo in atto o le raccomandazioni che aveva sollecitato
ma rimaneva il fatto inconfutabile che l’ultimo tedoforo, chimerico sogno
coltivato da molti giovani, tra le plaudenti ali di folla schierate sul viale
Carlo terzo sino al Vanvitelliano palazzo reale, con i capelli impomatati come
sempre ma con una tuta celeste immacolata, fu lui.
Il giorno successivo sul foglio
di cronaca locale, a tutta pagina, l’immagine del nostro eroe con la fiaccola
alta nella mano destra e l’espressione altera di chi ha la consapevolezza del
gesto epocale che sta compiendo.
E’ l‘ultima visione che ci
rimane di Nicola perché d’allora non l’abbiamo più visto.
Si dice, ma di lui si è detto
tutto ed il contrario di tutto, che si sia imbarcato come mozzo su di una nave
mercantile diretta in America.
Da allora, quando per
televisione si parla di quel lontano continente, lancio sempre un’occhiata.
Non mi stupirei se apparisse al fianco di uno dei presidenti americani, magari come consulente, per portare avanti un’iniziativa pataccara da lui proposta, in cambio di una manciata di dollari, alla Casa Bianca.
Enzo Napolitano