RADICI
Dedicato agli zii:
Maria ed Alfredo
Cercavo disperatamente di dormire, ma non riuscivo a tenere la testa sul cuscino, forse per il lieve russare di mio figlio o per i movimenti bruschi di mia moglie, che si agitava nel sonno. Un cane abbaiò nella notte e guardai l’ora: erano le due del mattino. Mi alzai dal letto come un automa ed attraversai stancamente la biblioteca. Il televisore era acceso e mia figlia dormiva abbracciata al cuscino rosa. La lasciai dormire. Come al solito, le vecchie mattonelle, presso la soglia, si mossero, causando un rumore sordo. Presi le sigarette sullo scrittoio e mi diressi verso il balcone‚ l'aprii. L'aria fresca della notte mi fece rabbrividire: sembrava autunno inoltrato, eppure eravamo al venticinque giugno. Aspirai avidamente una boccata di fumo, fissando l’asfalto della strada sottostante, quella strada che mi aveva visto bambino, tutta lastricata di basalto, riscaldata dal sole della mia fanciullezza e percorsa dai pesanti carretti, che portavano famiglie intere di contadini in campagna. Avevo le lacrime agli occhi. Rientrai e cercai di dormire. Un suono di campane accolse il mio risveglio, era domenica mattina e la casa era satura di sole. Sempre piena di gente era la mia casa, al centro di un piccolo universo creato da mio padre, un uomo dinamico, disponibile ed incredibilmente onesto. Nessuno pagava mai niente per i suoi piccoli servigi, ma a Natale ed a Pasqua avevamo tanta verdura che non sapevamo come smaltirla.
Era buona la gente del mio paese, semplice, modesta e sana. Quando mio padre era affacciato al balcone, tutti coloro che passavano gli davano cenni di saluto, per una sorta di rispetto, quasi dovuto.
Volevo bene a quell' uomo burbero, ma quasi sempre tenero con moglie e figli, capace di un amore che ti riscaldava il cuore. E pensare che volevano farne un prete e quasi ci riuscivano, se non fosse stata forte in lui la voglia di vivere intensamente. Armando, come oggi lo chiamo affettuosamente a novantaquattro anni, sarebbe diventato un ottimo prete, se non avesse dovuto osservare il voto di castità. Aveva circa vent' anni, quando disse addio al seminario ed iniziò la lotta per la vita. Mentre a trenta, con mia madre, si adoperò affinché nascessi io, il suo primogenito.
Certo, dovevano essere anni proprio difficili, con il lutto nelle case ed i paesi mortificati dalle macerie e dalla miseria. Si soffriva un disagio profondo, mentre una sorta di impotente rassegnazione spingeva la gente ad una vita assurda, dove solo un lavoro duro ti permetteva di sopravvivere. Nel mio paesino, in quegli anni, la vita era fatta di lunghe giornate nei campi, dove i contadini lavoravano dall'alba al tramonto e l'unico riposo veniva a settembre, con la festa dell’Addolorata. Allo spuntare dell'alba, li vedevi tutti lì, in piazza, con lunghi mutandoni e maglie vecchie, ad attendere dal caporale l'incarico della giornata. Sereni, con la barba in viso e la zappa sulla spalla, erano pronti a sfidare i raggi del solleone, per poche centinaia di lire ed una porzione di pane biscottato, accompagnato da qualche buon pomodoro maturo. Di domenica, c'era la partita a carte, presso l'unico bar del paese, dalle pareti annerite dal fumo di pipa e dagli scaffali semivuoti, dove faceva bella mostra di sé qualche sparuta bottiglia di “caffè sport” o di anisetta. Il suono delle campane era l'unico segno di festa. Esse diffondevano la loro voce, dal vecchio campanile della chiesetta medievale di S. Maria delle Grazie (1). Don Cesare Quadrino, recitava la messa in latino e tutte le vecchiette lo seguivano, esprimendosi in una strana lingua, frammista a forme arcaiche di dialetto campano:
- Fruttus venti tui, Iesus…-
Quanti piedi nudi sul basalto‚ che lastricava la strada principale del paese. Luigi " ò scullino" aveva una cura particolare nel pulire quei grossi lastroni che, d’estate, si facevano di fuoco. Magro e piccolino, si alzava all'alba e scopava meticolosamente ogni foglia, ogni più piccola cosa, che riponeva sul carrettino, spinto a braccia.
I bambini, quelli si che erano in festa! Si rincorrevano dai cortili alla strada, facendo i giochi più antichi del mondo: la settimana, a nascondino, a strùmmolo ed a tutto ciò che la loro creatività riusciva ad inventare (2) . Di sera, quando a malapena si distingueva il contorno delle case, i carretti tornavano dalle campagne, con le loro ruote cerchiate ed i muli, stanchi per il faticoso lavoro dello " 'ngégno" (3), procedevano a testa bassa. Dietro ogni carretto, vi era un lume a petrolio acceso e, quasi sempre, seguiva un cane che, abbaiando, segnava l'andatura del mulo.
Erano serate particolari, con la spossatezza, che univa le famiglie intorno alla tavola profumata di minestra o di pasta e fagioli, che, per la colazione del mattino, avrebbero cambiato sapore. (4) Le ore trascorrevano lente e venivano annunciate sgraziatamente dal martelletto dell'orologio della piccola piazza, l’unica, dove i cani abbaiavano e si annusavano prima di rincorrere qualche gatto grigio, per le strade buie del paese. A quel tempo, ci eravamo già trasferiti nella casa della defunta zia Vincenza, e trascorrevamo quelle ore intorno al braciere, attendendo che si indorassero le sottili fette di pancetta, che avrebbero insaporito il pane caldo. Altre volte, quando mamma ne aveva il tempo‚ ci friggeva delle gustosissime zeppole, che consumavamo a cena, ben zuccherate ed insaporite di cannella.
La nostra era una famiglia di tipo patriarcale, che si riuniva‚ in tutte le occasioni più importanti‚ nella casa del nonno, un omone completamente calvo, sincero come il vino e le mani piene di calli. Sorrideva sempre il padre di mio padre, con i grossi baffi che puntavano in alto e la mania di esprimersi con i proverbi: “tira più un pelo di donna che cento paia di buoi” ed ancora, “la botte si risparmia quando è piena”. Il Natale era, poi, indescrivibile: si accendevano i forni per gli arrosti e le lasagne, mia madre preparava i dolci, mia zia l'agnello ed il tacchino, zia Mariella, monaca di casa, ‚ per l’occasione‚ offriva il vino fragola. Era una gioia collettiva, che faceva impazzire grandi e piccoli. La tavolata era superba: diciannove persone che mangiavano scherzando, ridendo e divertendosi a fare piccoli dispettucci: l'acqua nel bicchiere del nonno, lo spago nella zeppola di zia Mariella e così via.
La morte della nonna non cambiò le cose: la famiglia rimase unita ed io continuai a compiere le mie gesta in giardino, con i miei cugini ed i miei fratelli. Eravamo agli inizi degli anni sessanta e si respirava ancora un'aria di antico. I miei zii, tornati da poco dalla prigionia, parlavano talvolta della guerra e mio padre di Mussolini. La radio riproponeva canzoni degli anni quaranta e quelle voci sottili, quasi bianche, esercitavano un certo fascino sulla mia personalità di fanciullo delle scuole elementari. Non è che prestassi poi tanta attenzione ai discorsi dei grandi, ma piccoli elementi e brevi racconti mi permettevano di ricostruire, a modo mio, tutta una realtà fino ad allora sconosciuta.
La credenza del nonno, sui ripiani più alti, custodiva un tesoro che eccitava enormemente la mia fantasia di bambino. Un giorno riuscii a mettervi le mani e mi riempii le tasche del giubbotto: erano proiettili assortiti, da quelli più piccoli di pistola, a quelli di fucile e Dio sa cos'altro. Per mia disavventura, e non solo mia, mi bagnai il giubbotto‚ per un canale di acqua piovana alquanto dissestato. Mia zia Mariella, con amorevole sollecitudine, cercò di asciugarmi l'indumento sul braciere e, nel girarlo‚ in modo che l'umido venisse a contatto con il caldo della brace‚ un numero imprecisato di proiettili finirono nel fuoco. Le urla che seguirono al primo scoppio non fermarono mia zia Mariella‚ che‚ con perfetto tempismo‚ lanciò fuori il braciere, che si spense sotto l'abbondante pioggia di quel giorno. Qualche mese più tardi, l'episodio perse tutte le caratteristiche di un dramma e tutti risero dei mutandoni bruciacchiati di mia zia e della sua accorata invocazione:
- Vade retro satana!-
Mi sentii un eroe punito quando, successivamente, fui costretto a seguire una lunga serie di rosari serali. Fortunatamente per me, le cose cambiarono, perché, crescendo, mio fratello Luigi divenne tanto discolo‚ che io passai quasi per un santo.
Mi sentivo importante con il mio primo vestito nuovo, il giorno della mia prima comunione. Sul muretto antistante alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, feci la mia brava fotografia ricordo ed il tutto fu solennizzato da un buon pranzetto di mia madre. A quel tempo, non avevo molto appetito, ma la carne la mangiai, sia per il profumo dell'rrosto che era invitante, sia perché la mangiavamo soltanto di domenica. Mi iscrissi alla scuola media Amendola, nella vicina Sarno. Non fu facile quel triennio, con quel suo carattere fortemente disciplinare e tutto quel latino che mi mandava in pezzi il cervello. Fortunatamente, le cure affettuose del professore di lettere, un simpatico napoletano, calvo come una palla di biliardo, mi fecero raggiungere felicemente il traguardo della terza media.
Gli anni del boom economico diedero a tutti l'illusione del benessere ed anche le nostre condizioni economiche sembrarono migliorare: mio padre prendeva di stipendio la favolosa somma di cinquantamila lire al mese e mangiavamo carne ogni domenica. Vendemmo la mitica lambretta ed iniziammo, purtroppo, i lavori di ampliamento della casa‚ che perse il suo bel balconcino ottocentesco e quell'armonia tipica delle case di fine ottocento. Acquistammo la lavatrice e scomparvero certi odori di liscivia, che caratterizzavano i cortili del mio paese, dove le donne facevano il bucato con il vecchio sistema della "colata" (1) ed il sapone fatto in casa, con grasso e soda. Come odoravano di pulito quei panni stesi al sole: era uno spettacolo vederli ondeggiare, come neve d'estate.
Mi ricordavano le lenzuola di lino della nonna, tutte ricamate a mano e perfettamente stirate con il ferro a carbone . Le donne di allora odoravano di casa e non portavano i pantaloni, ma meritavano di metterli. Esse soffrivano e gioivano, in silenzio, per le gioie e le sofferenze dei loro uomini e dei loro figli.
Mio padre mi iscrisse al ginnasio, dove ritrovai i miei amici d'infanzia: Mario ed Oreste, ai quali si aggiunsero Agostino, soprannominato “Pepetta”, Antonio Man-dile, Gaetano Milone e tanti altri‚ che mi accompagnarono per tutti gli anni del liceo.
Con i miei cugini torinesi ci vedevamo ogni anno. Venivano d'estate a villeggiare e mio padre organizzava allegre gite nella nostra stupenda costiera. Allora, ero fidanzato con Anna, una tenera ragazzina, che abitava ai Carresi, di poco più piccola di me, ma sapeva incantarmi come la più esperta delle sirene. Biondina, alta e sottile come un alberello di pesco, aveva due labbra calde e rosse, come due ciliege di fine giugno. Dolce e disponibile, Anna montava sulla mia motocicletta e raggiungevamo la parte alta di Sarno, dove mi donava tutte quelle dolcezze, che la gioia di vivere e l'età ci permettevano di cogliere a piene mani.
Fu negli anni settanta che la mia famiglia si trasferì a Salerno, dove mio padre aveva comprato un bell’appartamento alla Via Sorgenti, nei pressi dei parchi Persichetti. Era una zona stupenda, con la montagna di Croce alle spalle ed il mare davanti, in quel lungo tratto che forma il golfo e si va ad infrangere sulla marina di Vietri. Al mattino, i gabbiani salivano su con la brezza del mare ed al tramonto, le rondini salutavano il sole morente, con voli sempre più rapidi, tra i palazzi del rione.
La partenza per il servizio militare offrì una lunga parentesi di riflessione alla mia vita, che alla Cecchignola, dove venni trasferito, divenne piacevole‚ anche per la presenza di mio fratello, sottufficiale nella caserma vicina. Proprio quando la vita a Roma stava divenendo interessante, una fastidiosa bronchite asmatica‚ mal curata, abbreviò il mio ultimo periodo di naia. Ritornai in caserma solo per ritirare un premio letterario‚ che mi fu assegnato per una raccolta di poesie, durante una imponente manifestazione, con tutte le dodici compagnie della mia caserma schierate. Fu un generale con le stellette rosse a consegnarmi il diploma e la medaglia d’oro, ma ciò che mi commosse di più fu la presenza di mio padre nella tribuna.
Congedato, iniziai ad insegnare a Serre, nei pressi di Persano, nell'aprile dei 71 e fu lì che conobbi Maria Pompea, una collega che di lì a qualche mese sarebbe divenuta mia moglie. Forse furono i suoi grandi occhi verdi, o il suo modo di fare all’amore, certo è che me ne innamorai fino a desiderare di sposarla.
A fine anno scolastico, di pomeriggio, partimmo per il viaggio di nozze, disertando il banchetto nuziale. A Pienza comprammo le bomboniere che distribuimmo, poi, ad amici e parenti. Tutto sembrava procedere nel migliore dei modi, quando fui costretto a rientrare a Salerno, per l' improvvisa malattia di mia madre per la quale lottammo per ben cinque anni. Nel contempo, il rapporto con mia moglie divenne sempre più critico finché tutto naufragò dolorosamente, ed il divorzio sembrò per entrambi l’unica soluzione .
Fu così che, nell’estate del 1983, mi ritrovai da solo in quello stesso piccolo paese di provincia dove ero nato‚ con l’ingrato compito di ridisegnare la mia vita. Dopo dieci anni di duro lavoro, agli inizi degli anni novanta, conobbi Angela, che divenne la mia nuova compagna. Non avevo affatto l’intenzione di ripropormi come marito, la prima esperienza era bastata, ma la tenacia della ragazza e lo zampino della sorte, fecero si che ai due figli del precedente matrimonio, se ne aggiunse un terzo, cui diede il nome di Daniel. In questa nuova condizione, cercai di ripristinare quei rapporti affettivi, che avevano riempito il mio universo di fanciullo. Iniziai, così, a frequentare zii, cugini, amici d’infanzia ed ex compagni di scuola, in un contesto fatto di piccoli impegni sociali e di simpatici incontri conviviali. Fu in una di queste occasioni, che accadde qualcosa che non avrei mai più dimenticato.
La sala da pranzo echeggiava di voci generose, che, nel giardino attiguo, giungevano come un fastidioso e caotico frastuono. Il forte accento sarnese(5) di Alfredo, il marito di mia cugina indispettiva mio zio, che si chiamava allo stesso modo. Mia moglie Angela sembrava perfettamente a suo agio, in quella miscellanea di dialetti e discorsi ad alta voce. Annamaria‚ mia cugina‚ lanciava significative occhiate al marito, che aveva tutto l’aspetto di chi preferiva all’acqua un buon boccale di vino, mentre mia zia gradiva con soddisfazione tutto quel ben di dio che avevano preparato in grande abbondanza. Eravamo oramai al dolce, quando mi venne l’idea di sublimare quella celebrazione con un tocco finale: burlarci della supersti-zione dei parenti limitrofi con un falso rito satanico.
- Perché non prepariamo‚ una “ fattura” per i nostri amati parenti? –
- Ma che bella idea! – disse subito mia cugina Dora.
Mia Zia‚ che era una sempliciona‚ incominciò già a ridere ‚ al solo pensiero di come
Avrebbero reagito ‚ al nostro scherzo, le quattro sorelle Vistola.
Mio zio non sembrava troppo convinto della cosa‚ anche perché aveva un una sorta di rifiuto, per ogni forma di superstizione e non era il solo‚ ma per non guastare il movimento, che si era venuto a creare intorno alla cosa‚ acconsentì. Si misero tutti in movimento. Mia zia prese un pezzo di stoffa‚ Annamaria procurò degli spilli e Dora‚ l’ultima delle mie cugine‚ un nastro nero. Da parte mia feci lavorare la fantasia e venne fuori una bambola rudimentale‚ alla quale disegnai occhi e bocca. Infilai gli spilli un po’ dovunque. Poi, per rendere più verosimile la “fattura”(6)‚ sull’orlo della veste disegnai le iniziali del “fatturati” ed iniziai con una bella “M”‚ iniziale di Maria‚ che‚ tra l’altro‚ era anche il nome di mia zia. Fu Alfredo‚ il marito di Dora‚ a lanciare, nel giardino dei nostri superstiziosi parenti, la scherzosa “fattura”.
Continuammo il pranzo‚ mangiando il dolce‚ prendemmo del buon caffè e ci ripromettemmo di ripetere quell’incontro mangereccio di li a qualche mese, senza pensare che non siamo padroni del nostro tempo. Dovremmo vivere più semplicemente, immersi nel presente e senza progetti a lunga scadenza, badando a non intraprendere iniziative a cui non si può rimediare, manifestando il nostro affetto sincero alle persone che sono la nostra vita.
Passò tutta la settimana e decisi di trascorrere quella domenica in città‚ presso i miei parenti di Salerno e così feci. In serata‚ ci mettemmo in macchina e facemmo ritorno al paese. Dalla piazza premei il telecomando‚ così potei entrare facilmente in
garage‚ senza problemi di traffico. Avevo appena spento il motore‚ quando
vidi mia cugina Dora che correva verso di me piangendo:
-Franco, corri, mia mamma sta male! –
-Chiudi tu il garage – dissi ad Angela e corremmo al capezzale di mia zia.
- Zia, zia Maria! – la chiamai scotendola: era in precoma.
Chiamammo la guardia medica e ci confermarono la gravità del malore. Attivam-
mo rapidamente il trasporto al pronto soccorso, dove i medici diagnosticarono emor-ragia cerebrale. Per tutta la notte, mia zia lottò contro la morte ed al mattino sembrò che ce l’avesse fatta, tanto che scherzò con mio zio dicendo:
- Potevo morire! Non ti avevo nemmeno salutato! – Si baciarono. La giornata era splendida ed il sole alimentava l’ottimismo. Portai a casa mio zio, con la certezza che tutto era ormai superato. La notte successiva‚ purtroppo‚ chiuse definitivamente l’esi-stenza di mia zia, tanto che, al mattino, entrò nel portone di casa il suo cadavere. Mio zio era su e sapeva che di li a poco sarebbe arrivata sua moglie, l’attendeva, come lei aveva atteso lui per tutta la vita. Il suo corpo era in mezzo al giardino, sopra una vecchia sedia di legno. La testa, reclinata all’indietro‚ mostrava i grandi occhi chiusi e la bocca aperta, mentre le braccia pendevano lungo il corpo che già incominciava ad irrigidirsi. Indossava il medesimo vestito della domenica precedente, quello che l’aveva vista allegra e di buon appetito. Mio zio‚ dalle scale‚ chiamava: - Marì! - e la voce era tra la preghiera ed il pianto. Noi stavamo cercando di organizzarci per trasportala su‚ attraverso la rampa di scale‚ piuttosto appesa. Era un donnone mia zia, alta e ben messa ed ora costituiva un grosso problema.
- Marì - implorava mio zio,
- Fémmena mia!-
La sua voce si amplificava nella tromba delle scale‚ assumendo toni drammatici. La prendemmo. Io presi il lato posteriore della sedia e Franco‚ il marito di mia cugina Annamaria‚ quello anteriore. Ci avviammo. Attraversammo il giardino ed arrivam-mo alle scale. Iniziammo a salire.
Il macabro corteo procedeva lentamente, mente il cadavere muoveva braccia e testa. La mia spina dorsale fece uno strano rumore, ma non potevo fermarmi: lacrime e dolore mi accompagnarono fino alla sommità. Mio zio, sul ballatoio, sembrava impazzito‚ come in un incubo ad occhi aperti:
- Fémmena mia –
- E’ morta Maria mia?- mi chiese, non risposi e continuai, mentre il povero vecchio inconsapevolmente stava compiendo una danza macabra. Pensai al peggio.
-A fémmena mia!- ripeteva continuamente, finché non adagiammo sul pavimento
del ballatoio la sedia con mia zia morta.
A questo punto, mio zio si inginocchiò e mise la testa nel grembo della moglie, le abbracciò le gambe e pianse senza lacrime, come un bambino disperato. In quel momento, capì di essere rimasto solo. Ci guardò, guardò la moglie e chiuse con il mondo e la vita.
1) Costruita dai principi Capece Minutolo, duchi di S. Valentino Torio, un piccolo territorio della Taurania acquistato, per sessanta ducati, dai principi Doria di Angri.
2) La settimana consisteva nel saltare con un piede solo tra sette riquadri disegnati a terra. Lo strummolo, invece, era un pezzo di legno conico appuntito, che veniva fatto girare con uno spago.
3) Lo 'ngègno era un pozzo artesiano, dove, attraverso un congegno a nastro di catòse (termine dialettale di origine greca, che significa : che prende acqua dal fondo); esso serviva ad attingere acqua che, versata in una grande vasca di raccolta, serviva ad irrigare i campi. Il mulo o l'asino avevano il compito di far girare il congegno camminando a ruota intorno al pozzo.
4) Le contadine, quando avanzava la pasta e fagioli, la conservavano per il mattino successivo. La riscaldavano, insaporendola con peperoncino, e la servivano al mattino a colazione.
5) Di Sarno, città dell’agro noverino, bagnata dal fiume omonimo.
6) “Fattura” Pratica magica, fatta per far innamorare o per far morire qualcuno. Ancora oggi, nel sud, c’è chi ci crede e ricorre a maghi o maghe, per ottenere l’are o la morte di qualcuno.
Franco Pastore