SOGNO
Ero stanco e fortemente depresso, quando l’inserviente chiuse la porta alle sue spalle.
- Buona notte signore -
- Buonanotte! – risposi piuttosto bruscamente, come a dire: - Sei ancora qua?- Diedi un rapido sguardo alla stanza e mi diressi verso il balcone, piuttosto ampio e quasi spropositato rispetto alle dimensioni dell’ambiente. Un terrazzino, pavimentato con piccole mattonelle rosse, si affacciava sull’ampia piscina dell’hotel, mentre, più lontano si godeva l’ampia distesa del magnifico mare di Porto Cervo, oltre la stradina che portava a San Pantaleo. Il Country Sporting Club dominava dall’alto il porto vecchio e guardava, a sinistra, verso un ampio tratto di costa, caratterizzata da una generosa insenatura, dal mare di un azzurro intenso.
Bussarono alla porta. Mi seccai e non mi mossi. Bussarono ancora e fui costretto ad aprire.
– Sono il tecnico dell’Hotel, le chiedo scusa ma dovrei controllare l’impianto di aria condizionata-
- Se è proprio necessario !- risposi piuttosto alterato.
- Avrebbero dovuto già provvedere, lo so, ma mi sbrigherò subito signore, mi scusi tanto-
Ritornai sul terrazzino e mi accesi una sigaretta, pensando rapidamente a tutti quelli che non potevano provare quel tipo di piacere.
La Sardegna, quella vera, stava al di là dei giardini lussureggianti e delle gigantesche piscine. Quel paradiso artificiale nascondeva antiche e nuove miserie, ulivi contorti e terreni aridi, bruciati dal sole di luglio.
Con questi pensieri mi accomodai sulla sdraio e, mentre un coro di cicale inseguiva il vento tra le rocce ed il mare, senza che me ne accorgessi, mi addormentai, sotto il benefico effetto della calda carezza del sole al tramonto.
Mi svegliai di soprassalto al trillo del citofono, era la direzione che mi chiedeva se desiderassi la cena in camera.
Guardai l’ora: avevo dormito parecchio!
Decisi di fare una doccia, nell’attesa che mi portassero la cena e mi diressi verso il bagno, sperando che tutto fosse a posto.
L’acqua mi massaggiava le spalle e la nuca, procurandomi un piacere sottile ed un leggero brivido lungo la spina dorsale; sembrava che anche i miei pensieri si stessero sciogliendo sotto il potente getto della doccia. Il viaggio sul traghetto era stato snervante, anche se piuttosto veloce per quel tipo di imbarcazione, ma l’arrivo ad Olbia fu addirittura allucinante, per il caos e la disorganizzazione nella gestione degli arrivi e delle partenze. Un mezzo giro della manopola e l’acqua divenne più fredda, portando via tutto il torpore del riposo pomeridiano.
Mi asciugai rapidamente ed uscii sul balcone scalzo e con i capelli ancora umidi. Un accappatoio intorno ai fianchi copriva le mie nudità. Accesi una sigaretta e guardai verso la piscina: le coppie più anziane, in galleria, ascoltavano la musica, mentre altri passeggiavano nell’ampio parco dell’hotel. Una splendida luna lasciava intravedere i contorni frastagliati delle alture, mentre in lontananza si distinguevano nettamente le luci dei lussuosi panfili che si accostavano per ormeggiare.
Bussarono. Era la mia cena: ostriche, bottarga ed una buona bottiglia di vermentino . Erano circa le ventitré quando bevvi l’ultima goccia. Dal salone mi giungevano le note di “L’emozione non ha voce” di Celentano, mentre una coppia di spagnoli stava bisticciando nella stanza accanto. Ebbi voglia di uscire. Scesi rapidamente gli scalini che contornavano la piscina e mi ritrovai nel salone quasi vuoto, ad eccezione di quei pochi che sedevano al bar per le ultime consumazioni. Attraversai la hall pressoché deserta e mi immisi sulla strada che portava al porto vecchio, costeggiando un centro commerciale ed un villaggio. Lì, a sinistra, dopo un’ampia curva, una siepe di oleandri mi separava dalla parte alta del molo. Scesi rapidamente le scale che, attraverso un parcheggio privato mi portavano alla grande piazza; la raggiunsi. Guardai distrattamente le numerose boutiques che esponevano marchi prestigiosi, fermandomi allo sportello elettronico per un piccolo prelievo. Attraversai la piazza e mi fermai, sedendomi sul muretto che guardava il mare: sotto era ancora un brulichio di persone, mentre un odore intenso di pesce fritto saliva dai ristoranti sul molo.
Una trentina di grosse imbarcazioni riposavano dolcemente sul mare tranquillo, che, al largo, diventava d’argento, mentre le bandiere carezzavano le aste per l’assenza del vento, ma l’aria era fresca e leggera. Mi alzai e mi diressi verso uno dei due bar, accomodandomi pesantemente. Venne il cameriere. Chiesi un liquore tipico della Sardegna, una sorta di rosolio ai mirtilli, speciale se servito con ghiaccio. Sorseggiai lentamente e mi riconciliai con il mondo intero.
Erano circa le due, quando mi misi a letto e mi addormentai di lì a poco, contemplando quel paesaggio lunare che generosamente mi mostrava il balcone completamente spalancato.
Mi svegliai di soprassalto: rumori piuttosto violenti provenivano dalla stanza accanto. Guardai l’ora: erano le quattro e trenta del mattino.
Ora mi giungevano distintamente suoni concitati e grida soffocate, come se si stesse compiendo un delitto. Ad un tratto, un tonfo, qualcosa si ruppe e una donna gridò:
- Maldito, me muero! -
Mi alzai in fretta, uscii sul pianerottolo e bussai alla porta accanto. Nessuna risposta. Passi frettolosi fecero eco al mio secondo tentativo; poi, la porta si spalancò improvvisamente e ne uscì un uomo sulla trentina, dal viso sconvolto. Arretrai di un passo e lo seguii con lo sguardo, mentre scompariva rapidamente dietro l’angolo del corridoio scarsamente illuminato. Un lungo gemito mi scosse, senza altro indugio entrai. Chiusi la porta alle mie spalle.
Giaceva nuda a destra del letto, le lunghe gambe, piegate, nascondevano i piedi sotto il letto, mentre il lenzuolo, di lato, copriva una gran parte dei glutei. Un grosso livido sul fianco destro, all’altezza dell’ombelico, mostrava chiaramente l’azione devastante di un calcio. Un rivolo di sangue, all’angolo della bocca, evidenziava un marcato ematoma sulla mascella destra, che deturpava vistosamente le belle labbra carnose. Mi avvicinai, respirava a fatica. Presi un piccolo cuscino rosa dal divano e glielo misi con garbo sotto il capo. Entrai in bagno e presi due asciugamani. Li inumidii e delicatamente cercai di curarle le tumefazioni. Cominciai a parlarle con calma, con la speranza che mi comprendesse, per rassicurarla. Il respiro divenne più regolare. La coprii con il lenzuolo del letto, asciugandole le lacrime che le bagnavano il bel viso. Lentamente girò lo sguardo verso di me e mi fissò con i grandi occhi verdi: era stupenda.
Mi guardò e sorrise. Fu allora che mi ricordai che ero in mutande.
Ritornai dopo una diecina di minuti, avevo indossato in fretta un paio di pantaloncini ed una camicia a righe verdi. La donna andava riprendendosi rapidamente. Cercò di mettersi a sedere, ma si arrese subito, toccandosi con la mano il fianco destro. La presi con dolcezza e l’adagiai sul letto; tremava. Ritornai in camera, avevo delle aspirine in valigia, le presi. Aprii il frigo, presi del ghiaccio e ritornai da lei: aveva la fronte sudata. Misi il ghiaccio in un asciugamano e lo adagiai sul fianco dolorante, le feci capire che doveva mantenere l’impacco sulla parte. Feci sciogliere l’aspirina e le feci bere tutto il contenuto del bicchiere.
Finalmente, si addormentò. Chiusi la porta e rimasi a guardarla. Sicuramente l’uomo non sarebbe più ritornato, ma la cosa non mi preoccupava affatto, ero arrabbiato: come si poteva fare del male ad una creatura così bella? Erano circa le dieci del mattino quando uscii dalla stanza; la donna dormiva tranquillamente ed i suoi lineamenti erano distesi.
Mi feci rapidamente la barba, cambiai camicia e mi diressi al bar per un buon caffè. Solamente quando mi accinsi a rientrare nella sua stanza mi accorsi di essere ritornato indietro: nella penombra, il suo viso aveva qualcosa di irreale; il corpo, nell’abbandono del sonno, era stupendo. Si mosse leggermente ed un seno venne fuori con la grazia di un fiore, profumato di una sensualità quasi primordiale. Rinchiusi la porta e mi diressi nella mia stanza: il respiro era rapido come i battiti del mio cuore. Presi il citofono ed ordinai il pranzo per due, raccomandando di preparare il tavolo sulla mia terrazza.
Ritornai da lei ed attesi pazientemente che si svegliasse. Aprì gli occhi come se avesse avvertito la mia presenza; mi guardò come se allora mi vedesse per la prima volta e mi sorrise. Due grosse lacrime rigarono il suo volto, capii la sua infelicità. - Mi lasci un po’ da sola,
por favor - mi dileguai con rispettosa sollecitudine.
Nella mia stanza tutto era in ordine: avevano rifatto il letto ed avevano preparato per due, sul terrazzino del mio balcone. Avevo bisogno di una buona doccia. Il getto mi prese in pieno viso e, per un momento mi mancò l’aria; spinsi la testa all’indietro e l’acqua mi rinfrescò il petto. Mi girai lentamente e la scorsi: Era lì che mi guardava col sorriso più bello del mondo. Si tolse la vestaglia e quasi venni meno, tanto era bella: le lunghe gambe sostenevano un corpo perfetto, lunghi capelli neri corvini evidenziavano le spalle ben disegnate ed i glutei alti e sodi; il seno armonioso, appena coperto da due grosse ciocche nere, era la proiezione sensibile della dolcezza; mentre la bocca, senza parlare, parlava d’amore. Tesi la mano verso di lei, si buttò tra le mie braccia, tutta tremante.
Dimenticai il mondo e ringraziai Dio per avermi dato la vita!
Ad un tratto, dopo di aver sofferto lungamente, ci sembrò morire. Felici ed appagati, rimanemmo abbracciati sotto l’acqua per molto tempo ancora, poi, la presi tra le braccia e la portai sul letto ed iniziai ad asciugarla con tenerezza, come si avessi avuto paura di portarle via il suo profumo di donna. Era lì, reale, viva e non mi sembrava vero. Lentamente percorsi tutto il suo corpo, ma, quando raggiunsi il suo ventre rugiadoso, allora desiderai ancora morire con lei e fummo una cosa sola.
Il sole era appena tramontato quando iniziammo a pranzare; un venticello fresco ci portava il profumo del mare ed i suoi capelli neri giocavano con gli occhi, le belle labbra carnose ed i seni dai capezzoli turgidi. Una leggera fossetta, all’angolo sinistro della bocca, le impreziosiva il sorriso, aumentando il fascino della voce leggermente graffiante e sensuale. Brindammo all’amore e divenne improvvisamente seria, non aveva compreso che sarei stato suo per tutta la vita. Mi fissò intensamente, carezzandomi col piede l’interno delle cosce, poi, con dolcezza infinita:
Sto impazzendo d’amore - mi sussurrò, accendendo il verde dei suoi occhi splendidi.
Ci addormentammo esausti verso le due del mattino, mentre la luna disegnava un lungo triangolo a strisce, proiettando nella stanza le canne antisole del terrazzo. In lontananza, il canto di un pescatore dava colore ai nostri sogni; allora, chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal morbido abbraccio del suo seno.
La vecchia sveglia suonò impietosa e sobbalzai. Un rantolo prese il posto di una imprecazione. Cercai di farla smettere, non vi riuscii: cadde dal comodino e sentii il vetro andare in mille pezzi, con le immagini del mio bellissimo sogno. Tossii violentemente, ma non riuscii a liberare i bronchi otturati. Il panico mi spinse ad alzarmi: ansimavo. Afferrai il bracciolo della sedia a rotelle, per avvicinarla al letto, ma mi scappò. Mi sporsi, in uno sforzo supremo, e caddi miseramente sul pavimento. Il pappagallo si rovesciò ed un mare di urina mi inumidì la spalla ed i fianchi: desiderai morire: non vi era qualità nella mia squallida solitudine di handicappato.
Una mano mi strinse la gola ed i polmoni malati smisero di funzionare; invocai Dio e chiamai mia madre, il suo fantasma si chinò su di me e con lei scomparvi nella luce.
Franco Pastore