TATòNNO 'O RUSSO
Era nato da una famiglia di mediatori della valle dell’Irno ed egli stesso esercitava il mestiere, con quel garbo mellifluo, che è una caratteristi-ca peculiare della categoria. Antonio Cercati, figlio di Mario e di Assunta Mangiero, era venuto al mondo in un modesto casolare, in una campagna a due chilometri da Eboli, negli anni difficili di fine guerra, qualche anno prima dello sbarco di Salerno. Cresciuto alla men peggio, era il primo di quattro rampolli, quello che donna Assunta, buonanima, amava di più, per i capelli rossi e per quella disarmante ingenuità, che non presagiva nulla di buono. Ma, contro ogni previsione, Tatonno crebbe e riuscì pure a laurearsi, bastò vendere la proprietà della “bruciata”, con la piccola vigna di uva bianca, per fargli completare gli studi. Ben presto tutti lo chiamarono ‘o prufessore e questo faceva tanto bene ad Assunta, che se ne andò all’altro mondo col sorriso sulle labbra. Non così fortunata fu la sorella Teresa, costretta a battere sul litorale, per non morire di fame. Il fatto era che nemmeno col mestiere riusciva a vivere, per via di quelle gambe storte che si ritrovava e quel nasone, che de deturpava il viso. Quando alzava le gonne, erano risate e battute a non finire, tanto che ora non vi faceva più caso e rideva pure lei, almeno evitava di farsi cattivo sangue. L’altro fratello era riuscito a sistemarsi bene, nella casetta del custode, come guardiano del cimitero di Faiano, un paesino limitrofo, dove aveva sposato la figlia di un operatore ecologico.
Tatonno ‘o russo, come lo chiamavano i compaesani, iniziò la carriera di docente nella scuola media, ma gli strafalcioni ed il dialetto usato nella didattica quo-tidiana convinsero il preside ed i colleghi a promuoverlo vicepreside, con l’esonero dall’insegnamento. Di poi, fu accolto con gioia dai ragazzi di un istituto professionale per cuochi, dove la lingua italiana finisce in pentola con le salse e la grammatica. Fu tra i fumi di fornelli, che Tatonno concluse la brillante carriera di insegnante.
La qualità peculiare del “professore” era l’intrallazzo ed intrallazzando aveva costruito un nugolo di squallide topaie, piccole stanzette umide, dove eserciti di scarafaggi grossi e neri marciavano in riga, tra il compensato e le mura di blocchi mal cementati. I topi, quelli grossi, nelle serate di luna piena, vagavano senza tregua, come anime dannate, tra i tetti di lamiera verde e l’arricciatura delle pareti, imbiancate con la calce viva. Le “zoccole”, come in Campania chiamano le passeggiatrici, avevano formato una “postazione” vicino al cancello della proprietà Cercati e ciò dava fastidio a Tatonno, tanto che aveva nobilitato il ghetto con un Cristo di quattro metri, sopra un enorme piedistallo di pietre vive e cemento. Un autentico obbrobrio, che ispirava, al tempo stesso, curiosità e disgusto. Il luogo, così “santificato”, ospitava venti donne straniere ed un “vuò-cumprà”. Le polacche, tra i 25 ed i trent’anni, guadagnavano vendendosi, sulla litoranea, ai cinquantenni flaccidi, in cerca di emozioni ed ai bulletti, ubriachi di fumo e di birra, che consumavano la litoranea, tra la Capannina e Lido Lago. Il marocchino, invece, malato di stanca malinconia, partiva di buon mattino per la città, carico col suo carico di accendini, occhiali ed altre castronerie, che cercavo di vendere ai provinciali curiosi ed ai cilentani in pensione, tra la passeggiata del Pennello ed il porticciolo turistico. Una grande famiglia, quella che si conduceva all’ombra del Redentore di cemento, quella di Tatonno ‘o russo, che la gestiva con l’aria ambigua del padre “pappone”, generoso con i soldi delle povere traviate, alle quali permetteva talvolta di pensare ai piaceri del suo corpo, con i giochi erotici più vecchi del mondo.
- Dio mi ha toccato!- diceva alle donne il vecchi porco;
- Godo delle sue grazie! Non era da me fare tutto quello che ho fatto!-
Certamente, non era stato solo Cristo a toccarlo, ma tutte le sue “ospiti”, a turno, cercavano di stimolare quel vizioso e subdolo sessantacinquenne, che sembrava essere uscito da una novella del Boccaccia.
Solitamente preferiva Luda, una rumena ventisettenne, tutta nervi e niente cellulite, che si spogliava al solo vederlo, sicura di assicurarsi, in tal modo, quel tetto di lamiera verniciata, che le faceva da casa. Fingeva pure l’orgasmo, la poverina, mentre le lacrime le giravano negli occhi, prima di inumidire il cuscino maleodorante di muffa. Per ironia del destino, anche i diseredati hanno i loro sogni e Luda, da qualche tempo, sentiva che le cose sarebbero cambiate. Lo avvertiva per istinto e per certi sguardi che Amed, il marocchino, le lanciava ogni sera, al rientro da Salerno. Erano sguardi buoni, pieni di comprensione umana e di calore, che si trasformavano in qualcos’altro al solo comparire di Tatonno il professore. Amed aveva giurato a se stesso, che avrebbe parlato di Luda a quell’uomo e gli avrebbe detto, che presto sarebbe stata la sua donna e la madre dei suoi figli.
Quella domenica mattina, la ford rossa parcheggiò sotto la finestra di Luda e, mentre il professore chiudeva la portiera, Amed si avvicinò, come uno che si accinge a fare un discorso molto serio:
- Professò, volere parlare di cosa seria !-
- E parle, guagliò, nu’ fa chèlla faccia e cane muòrte! Parle!-
- Io volere bene a Luda, io volere sposare ed avere figli…-
- Me fa piacere pe’ te, Luda è bòna, è ‘na bella futtùte!-
- Professò, ora è la donna mia, lasciala sta’!-
- Ma, arragiòna, tu stai ndà casa mia, e pure la donna tua sta ‘nda casa mia e vuò fotte
sule tu?-
- Professò, io nu’ fotte con la donna tua!-
- Ho capito, guagliò, trovatevi la casa, se volete stare per conto vostro, perché, se
state qua, facciamo “ padre, figliuòlo e spirito santo”, hai capite? Futtìmme tutti
quanti!-
- Professò, trenta giorni e andare via con Luda! Tu lasciala stare!-
Con quelle ultime parole, Amed si allontanò, lasciando Tatonno indispettito e, per certi aspetti, deciso a non mollare quella situazione. Era ,oramai, una questione di principio: il marocchino doveva capire chi comandava e chi era il più forte.
Purtroppo, Amed non trovò nulla nei trenta giorni che seguirono, così, per tutta l’estate, il professore entrò nella baracca di Luda, godendo, a piene mani, della sua giovinezza, mentre Amed guardava allucinato la piccola finestra, aspettando che la donna si ribellasse, dandogli così l’occasione di intervenire. Ma la rumena non poteva rischiare di perdere un tetto a buon mercato e, per di più, vicino al posto di lavoro, d’altronde, quel rapporto per lei era senza significato: non vi metteva né anima, né cuore.
A metà settembre, Amed trovò casa in un basso del centro storico. Quando lo comunicò a Luda, gli sorrise con le lacrime agli occhi. Due giorni ancora ed avrebbero abitato in città, dove la donna avrebbe avuto il solo ruolo di moglie. Il professore apprese la notizia e sorrise amaro:
- E bravo il nostro vuò-cumprà, ce l’hai fatta! -
- Allora, ve ne andate domani?.
- Si- rispose Amed laconicamente.
- Vuol dire che questa notte dirò addio alla tua bella rumena!-
- Si- ripeté ancora l’uomo, con uno strano sorriso sulle labbra.
- Ridi, ridi pure, pezzo di cornuto, chi ha dato, ha dato e chi ha avuto, ha avuto !-
Amed alzò le spalle e continuando a sorridere si diresse verso la sua baracca, mentre Tatonno entrò in quella di Luda e richiuse la porta alle sue spalle.
- Allora, domattina te ne vai?- prese a dire con fare sornione,
- Si - rispose la rumena
- Il tuo nuovo indirizzo me lo dai, così continueremo a sfottere, io e te !-
- No, questa è l’ultima volta!- rispose Luda, distendendosi nuda sul letto.
Il professore la prese con rabbia e le fece male, tanto da farla strillare. Uno strillo contenuto, ma che Amed sentì; poi, tutto si confuse con i rumori della notte.
Erano le cinque del mattino, e l’alba portava le prime luci sul mare ancora addormentato. La donna uscì dalla sua baracca con un grosso fagotto, dove aveva sistemato tutte le sue cose. Amed l’attendeva già sulla strada, con il suo carico di accendini e mille altre cose. Si guardarono, si sorrisero e si avviarono verso Salerno, con il loro bagaglio d’amore e di speranze.
Verso le dieci del mattino, due auto della polizia entrarono a sirene spiegate nel largo del ghetto Cercati: il professore giaceva ai piedi del suo Cristo, nudo, con gli occhi spalancati ed un taglio alla gola, che andava da un orecchio all’altro. Le baracche erano tutte vuote, con le porte aperte e gli scarafaggi sul pavimento.
- Qui, da tempo non abita nessuno!- mormorò uno dei poliziotti.
- Sicuramente un regolamento di conti!- disse un altro, guardando la macabra figura di Tatonno, che sembrava guardare in cielo, quel redentore che aveva tanto offeso.
Franco Pastore